Perché il mercato non è un demone

«I mercati devono imparare a conoscerci e vedranno che siamo persone coerenti e serie». L’affermazione è del vice premier Luigi Di Maio (13 settembre). Impegnativa. Il modo migliore che ha un governo per farsi conoscere è quello di scrivere una legge di Bilancio credibile. E soprattutto di non cambiare idea ogni giorno, a proposito di coerenza. Perché in quel caso anche i numeri, nero su bianco, perdono di credibilità. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto, sabato 8 settembre, a manager e imprenditori riuniti a Cernobbio: «Non giudicateci per quello che diciamo ma per quello che faremo». Reazioni perplesse. Dunque le dichiarazioni non sono serie? Vanno prese con beneficio d’inventario? Ma purtroppo sono costose, come ha rilevato il Presidente della Bce. Subito si è obiettato che Mario Draghi non è stato eletto da nessuno (come aveva già sostenuto su Twitter Alberto Bagnai, presidente della Commissione Tesoro e Finanze del Senato), quasi non avesse diritto di parola. Draghi è stato indicato dai governi dell’Eurozona. Se avesse dovuto preoccuparsi del consenso, magari del suo principale azionista tedesco, non avrebbe mai varato quel massiccio programma di acquisto dei titoli di Stato che ha alleggerito (invano?) il peso del nostro debito pubblico. Questa è la forza irrinunciabile delle autorità indipendenti nelle democrazie liberali, come ha spiegato ieri sul Corriere Sabino Cassese

Le decisioni migliori non sono sempre quelle che hanno il maggiore consenso. E nemmeno dei politici cui si deve una nomina. Altrimenti rivolgersi a Turchia e Venezuela. E quando le autorità non sono indipendenti, anche dai loro regolati o non hanno sufficienti poteri — come è accaduto per l’authority dei Trasporti — non vigilano sui ponti pericolanti. La «sovranità appartiene al popolo», si è aggiunto come a dire che l’eletto ha sempre ragione. Sì, ma si dimentica di citare la seconda parte dell’articolo 1 della nostra Carta «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Nulla di nuovo. Anche in altre stagioni politiche c’era chi scambiava il consenso per la piena legittimità e aveva fastidio per l’indipendenza della magistratura o della Banca d’Italia. «Non aspetteremo i tempi della giustizia» ha detto ancora il premier dopo la tragedia di Genova. Parola di un avvocato per giunta. Forse più preoccupato di accontentare i suoi azionisti di riferimento (Salvini e Di Maio) che di riaffermare una regola base dello stato di diritto.

Nei giorni scorsi Cinque Stelle e Lega hanno costretto alle dimissioni il presidente della Consob Mario Nava. Tecnico di valore, sicuramente indipendente, il quale avrebbe dovuto mettersi in aspettativa dal proprio incarico alla Commissione europea anziché esserne distaccato. «Ora — ha aggiunto Di Maio — nomineremo un servitore dello Stato e non della finanza internazionale». Come se Nava venisse dalla Goldman Sachs e non dalla Commissione europea, dove rappresentava e rappresenta l’Italia. E non fosse uno dei dirigenti più alti in grado e apprezzati. Non è certo, quello di Di Maio, il modo migliore per sostenere gli italiani con ruoli di responsabilità negli organismi internazionali.

La storia delle nomine Consob non è priva di gravi intromissioni della politica. E nemmeno di ingerenze dei grandi gruppi finanziari. In origine la Commissione era una branca del ministero del Tesoro. È stata anche presieduta da un andreottiano gestore di cinema romani (Bruno Pazzi). Insomma, la politica il naso ce lo ha sempre messo. Dal «governo del cambiamento» ci si aspetta che non replichi le abitudini peggiori. Ma si sa, l’appetito per il potere vien mangiando. E l’attuale maggioranza mostra di avere una discreta fame arretrata.

Vi sono alcune parole di Tommaso Padoa-Schioppa, scomparso nel 2010, che varrà la pena di rileggere nel momento in cui si dovrà designare il successore di Nava. «La figura a cui l’azione della Consob fa ideale riferimento — sosteneva l’economista presidente della Commissione nel ‘97-‘98 — è un risparmiatore bisognoso di una garanzia diversa dalla sicurezza del valore nominale del suo investimento che l’ordinamento offre al depositante. È una garanzia di trasparenza e di correttezza». Il mercato è un regime di regole. L’indipendenza di un’authority dalla politica (e non solo) fa in modo che quelle regole siano a tutela dei più deboli. I più forti vorrebbero imporre — come scriveva Guido Rossi, altro presidente Consob nell’81, scomparso nel 2017 — le loro regole del gioco. Spesso vi sono riusciti.

L’idea di mercato che sembra prevalere in molte dichiarazioni legastellate è quella di una giungla della sopraffazione totalmente separata dall’andamento dell’economia reale. Come se non ci fossero gli interessi dei risparmiatori e dei lavoratori che appunto vanno difesi grazie a controllori esperti e indipendenti e non da «angeli vendicatori» del profitto, paladini o «avvocati del popolo». C’è persino la presunzione che se ne possa fare a meno. «L’Italia è un problema per la zona euro? Pronti a togliere il disturbo e amici come prima — ha scritto su Twitter il 13 settembre Giorgia Meloni, leader di FdI — Vediamo come se la cava la zona euro senza l’Italia e come se la cava l’Italia fuori dall’euro». Luoghi un po’ leggendari e caricaturali nei quali scorrazzano indisturbati solo speculatori senza scrupoli e non invece operano aziende, fondi pensione o stati come l’Italia costretti ogni anno a vendere i propri titoli del debito pubblico. In finanza il chilometro zero non funziona, nonostante si pensi di collocare Btp solo agli italiani. La realtà, piaccia o no, è questa. Forse prima di farsi conoscere dagli odiati mercati bisognerebbe comprenderne l’importanza e la centralità. I difetti non mancano. Ciò farebbe capire che demonizzarli inutilmente è il modo migliore per aiutare coloro che si vorrebbe combattere, quelli che al mercato delle regole preferiscono la giungla dell’arbitrio.

CORRIERE.IT

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