C’È CHI lo comincia a sostenere apertamente nei Palazzi che contano e chi continua a sussurrarlo per evitare permalose e irritate reazioni. In Italia abbiamo non un governo solo, come in tutti i Paesi normali. No: abbiamo due governi. Il primo è quello di Matteo Salvini che lucidamente e freddamente, ma anche cinicamente, guadagna terreno e consensi, mettendo a segno una serie di colpi non irrilevanti. Il secondo governo, invece, è quello di Luigi Di Maio, che si muove con nervosismo parossistico e uscite estemporanee per l’’assenza di una regia consapevole e razionale. Insomma, la maggioranza è una ma i governi sono due. E questo era implicito nelle modalità di formazione dell’esecutivo, basato non su un’alleanza più o meno organica, più o meno omogenea, quanto su un «contratto», che implica, di per sé, due parti contrapposte che si accordano per convenienza più che per convinzione. Ciascuna per soddisfare il proprio interesse.

Solo che questa anomala natura del patto di governo sta producendo effetti non irrilevanti e risultati non secondari proprio sulle parti contraenti. E così, come dimostrano i sondaggi quotidiani (da ultimo il nostro pubblicato oggi), il leader della Lega ha puntato su obiettivi tangibili e conseguibili, con una caratteristica fondamentale per un Paese dalle finanze pubbliche fragili e traballanti come l’Italia. Non c’è dubbio che per gli italiani i temi della sicurezza e del controllo dell’immigrazione rappresentano due formidabili driver sui quali giocarsi una partita politica decisiva: proprio quello che sta facendo in questi mesi il capo del Carroccio. E, d’altra parte, l’abilità tattica di Salvini (e in questo caso anche di un regista esperto e navigato come Giancarlo Giorgetti) si manifesta anche nell’ambito della stessa manovra di bilancio per il prossimo anno. Se mettiamo in fila le misure della «manovra leghista», da quota 100 per le pensioni agli sconti fiscali per partite Iva e imprese, fino al condono, scopriamo che si tratta di interventi gestibili finanziariamente e soprattutto «automatici»: i destinatari sanno fin da ora se e come potranno ottenere vantaggi.

Di tutt’altro segno il profilo di governo emerso finora dalla parte grillina del «contratto». Il decreto cosiddetto Dignità, firmato da Di Maio, ha avuto un parto travagliato, tra mille versioni e mille correzioni parlamentari, e ci sono fondati timori su quelle che saranno le conseguenze (non positive) sul mercato del lavoro a partire dai prossimi mesi, quando diventerà pienamente operativo. Ma quello è stato, per più versi, solo l’antipasto. La prova della verità si sta compiendo in queste settimane proprio nella partita della manovra. All’improvviso, i 5 Stelle hanno scoperto che l’approccio gradualista nella realizzazione del reddito di cittadinanza li avrebbe esposti al rischio di rimanere con una bandiera ammainata in mano in vista del voto europeo della prossima primavera. Ed ecco, dunque, l’esplodere di un approccio velleitario alla finanza pubblica fatto di scorribande improvvide e di uscite estemporanee. Ma lungo questa via sarà davvero impervio inseguire la Lega.

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