Che guaio se Salvini fa lo struzzo con i grillini
Nella storia della Repubblica italiana non c’è mai stato il caso del testo di un decreto che circolasse tra ministeri, Palazzo Chigi, palazzi istituzionali che avesse al posto delle cifre i puntini, come se fosse un cruciverba.
Eppure sul decreto per affrontare l’emergenza genovese per il crollo del viadotto Morandi della premiata ditta Conte-Toninelli, è accaduto anche questo. Come pure che si trasformasse un intervento di legge per un’emergenza in un «omnibus» per tutte le emergenze: dai provvedimenti per il terremoto di Ischia a quello dell’Umbria, passando per l’autostrada dei Parchi, fino alla cassa integrazione per alcune crisi aziendali. Tutte questioni che con l’argomento principale c’entrano come i cavoli a merenda. Non è previsto, invece, il finanziamento per lo stato di avanzamento del terzo valico, che non fosse altro perché interviene sul traffico del nord-est (come ha sostenuto invano il sottosegretario leghista alle infrastrutture Edoardo Rixi) aveva un senso. Ma si sa, la logica grillina segue sentieri imperscrutabili. Risultato: il decreto non è ancora venuto alla luce e, quando ciò avverrà, la confusione sotto il cielo sarà massima.
«Un pantano» ha sentenziato Giorgio Mulè, portavoce di Forza Italia. Tant’è che ieri il governatore della Liguria, Giovanni Toti, e il sindaco di Genova, Bucci, hanno accarezzato l’idea di rivolgersi al presidente Mattarella, mentre nell’aula della Camera il ministro Toninelli è stato tacciato dall’ex ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi di essere «ignorante o in malafede». «Aveva promesso – è la motivazione – il ponte in un anno. Con i casini messi in atto, è sicuro, che ci vorranno almeno 24 mesi. Basta farsi i conti».
Ancora. Se uno si va a vedere i consuntivi del bilancio dello Stato degli anni che vanno dal 2014 al 2017 scopre che tra le cifre contenute nella legge di bilancio (ex legge di stabilità) e i consuntivi (il documento che elenca spese ed entrate a posteriori) c’è una differenza rilevante in più per quanto riguarda il rapporto deficit-Pil. Insomma, lo Stato italiano ha speso di più di quanto aveva preventivato e comunicato all’Europa: nel 2015 la differenza era dello 0,4 in più, cioè 6,4 miliardi di euro; nel 2016 dello 0,6, 9,6 miliardi; nel 2017 dello 0,7, equivalente a 11,2 miliardi. Un modo furbo per «dribblare» un minimo i parametri europei. Da mesi, invece, il vicepremier grillino Giggino Di Maio teorizza in giro che la legge di bilancio supererà i limiti che gli pone l’Ue, aizzando tecnici di Bruxelles e mercati. Per le sparate di quest’estate, secondo uno studio, lo Stato italiano dovrà pagare in due anni sei miliardi di euro in più sugli interessi sul debito. Se Di Maio si fosse morso un po’ lingua si sarebbero risparmiati quei sei miliardi, che aggiunti, per fare un esempio teorico, agli altri 11,2 miliardi che potrebbero arrivare operando sul consuntivo, come fu fatto nel 2017 dal governo Gentiloni, avrebbero fatto la bella cifra di 17 miliardi: quasi l’intero costo del reddito di cittadinanza. Ma per uno come Giggino, che promette lo sfratto a tutti i tecnici del ministero dell’Economia e che entro la fine dell’anno «abolirà la povertà per decreto», è evidente che contano più «gli annunci» che non «i fatti». Con tutto quello che ne consegue.
Solo che le ripercussioni negative del «modus operandi» grillino, potrebbero ricadere sull’intera compagine di governo. Alleati leghisti compresi. Il problema, infatti, non riguarda una determinata filosofia, un fattore ideologico, un atteggiamento derivante dalla cultura sovranista o populista. No, questi esempi dimostrano, soprattutto, che c’è un fattore «I», cioè «l’Incompetenza» grillina, o, se si preferisce, «l’Inattitudine» al governo dei 5stelle. E il «fattore I», gira che ti rigira, finirà per penalizzare fatalmente anche i partner di governo. È come se i leghisti, che si sono formati alla dura scuola delle amministrazioni locali, si fossero ritrovati a giocare in una squadra di calcio in cui ci sono giocatori che non conoscono i fondamentali: non sanno dribblare, non sanno stoppare la palla, né tantomeno crossare. Finché la fortuna tiene, la squadra si salva, ma con dei compagni che giocano a calcio con le regole della pallavolo, ci vuole un nonnulla a beccare quattro gol. È il timore che da mesi pervade il più esperto degli esponenti di governo del Carroccio, Giancarlo Giorgetti: «Qui – ha confidato più volte – ogni minuto si trema. Questi a volte affogano in un bicchier d’acqua». Ma il capo partito, Matteo Salvini, per ora ha adottato la politica dello struzzo. Magari, approfitta pure della debolezza dell’avversario per mettere in risalto le proprie doti («io con i grillini ci sguazzo»), come quei fuoriclasse che giocano più per sé che non per la squadra: pensa al decreto immigrazione, al decreto sicurezza e se ne frega del resto. Una «tecnica» che finora ha pagato, se addirittura Gino Paoli è arrivato a dire: «Salvini è furbo, Di Maio no».
Ma quanto pagherà questa linea in un paese volubile come l’Italia? Neppure tre anni fa Berlusconi diceva di Renzi: «Tutto quello che tocca diventa oro». Poi si è visto com’è andata a finire. Osserva il coordinatore degli azzurri in Abruzzo, Nazario Pagano: «Salvini punta al decreto sicurezza, ma fa lo struzzo sui disastri che i grillini stanno facendo in economia: alla fine, però, anche lui dovrà rispondere dei danni all’occupazione del decreto dignità e spiegare ai genovesi perché fra un anno non avranno un ponte».
Una preoccupazione che cova anche tra i leghisti. Nell’ultimo partito bolscevico del Bel paese, nessuno dello Stato maggiore del Carroccio parla, per non disturbare il «manovratore», ma poi, gratta gratta, ti accorgi che molti guardano al «rischio» grillino con attenzione. «Il problema – osserva Andrea Crippa, deputato e commissario nazionale dei giovani padani – è che Di Maio sembra essere contagiato dalla sindrome del secondo. E a volte vengono fuori i guai. Ecco perché noi dobbiamo stare attenti a calcolare i tempi di un possibile distacco». «Io – confida Giuseppe Basini, uno dei pochi leghisti eletti a Roma – ero convinto che lo showdown con i 5stelle ci sarebbe stato dopo le europee, ma se i ministri grillini continuano a dimostrarsi così incapaci, non è detto che non si faccia prima».
Appunto, il fattore «I» incombe. E potrebbe diventare una variabile dei prossimi mesi. I primi segnali già si vedono, a cominciare dal ricompattamento del centrodestra: Marcello Foa è diventato presidente della Rai anche con i voti di Forza Italia; nel contempo Berlusconi, Salvini e la Meloni, hanno siglato un’alleanza elettorale per le regioni in cui si voterà da qui al 2020. Un accordo di ferro se Ignazio La Russa si porta sempre in tasca un documento che assegna la candidatura della coalizione del centrodestra per l’Abruzzo a Fratelli d’Italia, con le firme del Cav, del vicepremier leghista e della Meloni.
IL GIORNALE