Il governo: “Avanti anche con il no dell’Ue”. Marcia indietro solo con lo spread a 400
Il sacrificio è fatto, dicono. Oltre non andiamo, ripetono. In meno di 24 ore il deficit fissato dentro il Def cala ancora: non più 2,4 per cento per il prossimo triennio, come era fino a lunedì, ma neppure 2,2 nel 2020 e 2 per cento nel 2021, come era stato deciso durante il vertice dell’altro ieri. La forbice di Giovanni Tria e dei funzionari del Tesoro ha colpito nella notte per tenere il disavanzo sotto soglie accettabili agli occhi dell’Unione europea: nel 2020 sarà del 2,1 e nel 2018 dell’1,8 per cento. Resta intatta invece la cifra del 2,4. Ultima, intoccabile trincea per il governo grillo-leghista. «Nessuna marcia indietro – garantisce Salvini – Quello è un punto fermo e non si discute». Stesso discorso per Luigi Di Maio, pronto a caricarsi addosso la responsabilità di scatenare una guerra con Bruxelles, anche a costo di farsi dire di no alla legge di Bilancio.
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Dopo la doppia retromarcia sul deficit, i gialloverdi sfidano l’Ue: «Ci bocciassero pure la manovra. Siamo pronti. Sarebbero loro a perderci» è la convinzione di Di Maio, ma anche di Salvini. Da oggi in avanti inizia una lunga trattativa, che a tappe prefissate porterà a una soluzione finale. Che potrebbe essere anche quella, del tutto inedita nella storia dell’Unione monetaria, di un respingimento. Di fatto, Di Maio si è tradito con un lapsus martedì sera, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica: «Vogliamo costringere l’Ue a dirci no alla manovra» ha detto il vicepremier del M5S, prima di tentare di correggersi ma senza troppa convinzione.
A Bruxelles interessa che il deficit scenda anche per il primo anno, il 2019. I grillini e i leghisti sono pronti ad affrontare la procedura di infrazione, che sarà scontata se l’Italia non cambierà l’architettura dei conti. Si fanno forza ricordando l’esempio della Francia: «E’ stata sanzionata per deficit eccessivo, ha accettato di pagare in dieci anni ed è andata avanti lo stesso». I gialloverdi fondano le loro sicurezze su una convinzione politica ispirata dal ministro degli Affari Ue Paolo Savona. L’Europa, dicono, è chiusa in un angolo, costretta dall’avanzata dei populismi in tutti i Paesi a dover fare delle concessioni per assicurarsi la propria sopravvivenza: «Non conviene a nessuno mettere in difficoltà un Paese come l’Italia. Perché esploderebbe l’Europa. E loro lo sanno».
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Così Lega e 5 Stelle sono decisi ad aggredire le resistenze dell’Ue, anche a costo di tornare al voto nel pieno della bufera sui mercati. Si sono fissati solo un limite, e riguarda proprio la leva che possono attivare gli investitori che scommettono sul nostro debito. Se lo spread, il differenziale tra Bund e Btp, dovesse andare ben oltre i 300 punti toccati ancora ieri, la furia di spesa potrebbe placarsi. È a 400 punti, esattamente, che grillini e leghisti hanno fissato la soglia della tregua. Solo in quel caso, con l’Italia magari sull’orlo del baratro come avvenne nel 2011, sarebbero disposti a firmare un armistizio.
Ma il fronte comune che si salda quando il nemico è l’Ue, rischia di spaccarsi ora che le cifre vengono a galla in tutta la loro contraddittorietà. Ognuno sta tirando verso i propri interessi e le proprie promesse elettorali. E non è casuale che il Def non sia ancora del tutto scritto e le tabelle completate. Di Maio non si fida del tutto delle garanzie dell’alleato, e resta sempre in guardia quando si parla del reddito di cittadinanza e delle relative risorse. Sa che la Lega, come aveva detto Giancarlo Giorgetti, non ama la misura e chiede paletti più stringenti. Il sottosegretario del Carroccio in asse con Tria ha preteso clausole di salvaguardia sulla spesa per frenare un deficit ulteriore nei prossimi anni. Una richiesta specifica però ha fatto saltare i nervi a Di Maio: quando Tria ha proposto di estendere quelle clausole anche al reddito di cittadinanza. In poche parole, sarebbe sfumato nel 2020 se la crescita non avesse garantito il livello di disavanzo stabilito. Una richiesta inaccettabile per il M5S che lo pretende per marzo-aprile, alla vigilia delle elezioni europee. «Non esiste che facciamo il reddito di cittadinanza a tempo».
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