Di Maio e Salvini: «Fatto il possibile, se arriva la bocciatura Ue si vota»
«Stiamo mostrando coraggio, soprattutto per il 2019». Questa frase, quasi sussurrata da Giuseppe Conte in una conferenza stampa insolitamente sobria, decisamente breve (domande vietate) e senza i soliti proclami, è la fotografia delle ultime ore di trattativa. Ancora una volta Sergio Mattarella si è fatto sentire, raccomandando prudenza. E dopo la scoppola di martedì dello spread e le stroncature di Bruxelles, il capo dello Stato ha ricevuto ascolto e con lui i mediatori Giovanni Tria ed Enzo Moavero Milanesi, sostenuti in questo giro da Conte.
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Il 2,4% del rapporto deficit-Pil, che doveva essere replicato anche nel 2020 e nel 2021, ha subìto una vigorosa cura dimagrante. L’asticella già ridotta martedì, è stata ulteriormente abbassata per provare a scongiurare altre tempeste finanziarie, la bocciatura di Bruxelles e non correre il rischio di non avere la controfirma presidenziale sul testo della manovra economica: il deficit è stato portato al 2,1 nel 2020 e all’1,8% nel 2021. Previsioni di spesa da 5 a 10 miliardi più basse rispetto a quanto annunciato giovedì scorso, quando il Consiglio dei ministri varò la bozza della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def). Di cui, tra l’altro, ancora ieri sera non si conosceva il testo definitivo.
Il problema, però, è che questo sforzo può non bastare. La Commissione europea ha fatto sapere che guarda solo al 2019 e che il 2,4% l’anno prossimo è «insostenibile». Ma Di Maio, che si prepara come Salvini alle elezioni europee di maggio, non vuole arretrare ancora: «Da lì non ci muoviamo, in Europa quel deficit dovranno ingoiarlo. Siamo stati già molto ragionevoli e di più non concediamo. Ci bocciano la manovra? Vedremo, siamo pronti allo scontro…». Ma nell’entourage del vicepremier grillino si ammette: «Se lo spread dovesse schizzare a 400 non potremmo reggere». Linea non molto differente quella di Salvini: «Abbiamo fatto ogni sforzo possibile, a questo punto andiamo dritti per la nostra strada. Di Bruxelles me ne frego. Ma non conviene a nessuno metterci in difficoltà, l’Europa esploderebbe». E c’è chi parla (di nuovo e soprattutto tra i leghisti) di possibile exit strategy: le elezioni anticipate in primavera se Bruxelles dovesse bocciare la legge di bilancio.
Sussurri e minacce che sono la prova di quanto le ultime ore siano state decisamente nervose. Di Maio e Salvini sono tornati a duellare, ognuno determinato a difendere le proprie riforme di bandiera davanti alla scarsità di risorse.
Il capo 5stelle, che ancora in mattinata aveva minacciato la crisi, è andato a testa bassa. La ragione: Tria, sostenuto dal leghista Giorgetti, voleva inserire una clausola di salvaguardia che avrebbe reso provvisorio (solo per il 2019) i reddito di cittadinanza se non dovesse scattare la crescita promessa per ridurre il debito (4 punti in meno in tre anni). Raccontano che «per tutta la giornata ha fatto il pazzo». E poi, tra le sei e le sette di sera, nel vertice con Conte, Tria, Moavero, Salvini sarebbe riuscito a spuntarla (il condizionale è d’obbligo, la manovra è da scrivere). Ma a costo di tagliare un paio di miliardi alla riforma della legge Fornero sulle pensioni, ritardandone la partenza o riducendo la platea dei pensionandi.
LA GUERRA DI CIFRE
Salvini non l’ha presa bene. Anche il leader lumbard ha fatto fuoco e fiamme. Ma poi, secondo fonti grilline, ha accettato di far partire quota 100 da aprile, con un risparmio di 2 miliardi rispetto agli 8 previsti. In cambio però il ministro dell’Interno ha incassato l’impegno per l’assunzione di 10 mila uomini nelle forze dell’ordine (costo 1 miliardo). La partita però è tutt’altro che chiusa. La prova: Salvini fa sapere che la riforma della Fornero «partirà da inizio anno» (non da aprile). E che i miliardi stanziati sono 7 e non 6.
Raccontano che il capo leghista ha dovuto fare la voce grossa anche quando si è trattato di difendere i 2 miliardi previsti per la flat tax al 15% a favore delle partite Iva. «Qualcuno la voleva fermare». E quel qualcuno sembra siano stati Tria (a caccia di risparmi) e Di Maio (alla ricerca di fondi per il suo reddito).
Poi è scattata la guerra di cifre. Il bilancio, a sentire il Carroccio, è a favore di Salvini: 10 miliardi di risorse, su un totale di 16, sarebbero appannaggio delle riforme chieste dal vicepremier. Ma i conti non tornano: vorrebbe dire che al reddito andrebbero solo 6 miliardi e non i 10 certificati da Di Maio. Tant’è, che i grillini ribaltano le cifre, facendo irritare (e non poco) Salvini: «Nel 2019, 10 miliardi andranno al reddito e 5 alla revisione della Fornero». L’epilogo è una tregua sui numeri e una sorta di lotteria: a notte grillini e leghisti dicono che il totale delle risorse è di 20 miliardi, divisi a metà. Chissà cosa dirà Tria.
Di certo c’è che quando si tratterà di scrivere la manovra saranno dolori.
IL MESSAGGERO