Il premier e il ruolo da giocare
Nell’ormai rimpianta Prima Repubblica, la satira fu spietata con le figure incerte, impalpabili, apparentemente vuote. Si rideva di gusto. Fortebraccio, al secolo Mario Melloni, ex democristiano, scriveva su L’Unità, riadattando una battuta di Churchill: «Arrivò un’auto, si aprì la portiera, non scese nessuno. Era Nicolazzi». Nome che non dirà nulla ai più giovani. Franco Nicolazzi fu ministro e segretario del Partito socialdemocratico. Giovanni Goria, più volte ministro e presidente del Consiglio (1987-88), veniva ritratto da Giorgio Forattini su Repubblica con la sola barba, senza i lineamenti del volto. Invisibile. Come a dire che non contava nulla. Questi due episodi ci sono tornati alla mente quando abbiamo visto il premier Giuseppe Conte mostrare alle telecamere, non senza qualche imbarazzo, il testo del decreto Salvini sull’immigrazione. Con l’autore a fianco sorridente. Un «premier sandwich». Non era mai accaduto. Se c’era poi una persona legittimata (ma per fortuna e suo merito non l’ha fatto) ad andare sul balcone di Palazzo Chigi per festeggiare, chissà perché, un po’ di debiti in più, era lui. Non l’altro vicepremier Di Maio. Il presidente scuserà questa licenza iniziale. Lo scritto non è contro di lui. Anzi, è a suo favore. Perché crediamo sia interesse del Paese sostenere l’autonomia del ruolo del capo dell’esecutivo, confidare nella sua saggezza giuridica, sperare che governando applichi un principio di base del diritto: la «diligenza del buon padre di famiglia».
Non esponga il Paese a rischi inutili. Dopotutto si è autodefinito, senza un briciolo di ironia, «avvocato del popolo». Dunque, faccia gli interessi degli italiani, difenda i loro risparmi. Senza illuderli, senza sbilanciarsi in colossali, quanto poco credibili, promesse. Non vi sono — come ha detto ad Assisi in contraddizione con la sobrietà francescana — soldi per tutto: dal reddito di cittadinanza, alle pensioni, alla riduzione delle tasse. Un Paese indebitato non è libero di fare tutto ciò che vuole e lui da giurista lo sa bene. Dica qualche volta — e anche pubblicamente — no ai suoi due azionisti di maggioranza, li richiami al rispetto delle forme. A una certa sobrietà negli atteggiamenti. Al rispetto delle istituzioni. Anche chi ha molto consenso e il vento dei sondaggi a favore non occupa le istituzioni come fossero «aule sorde e grigie», le rappresenta. Metta sul tavolo, se necessario, le proprie dimissioni. Dia finalmente spessore e lineamenti al proprio volto politico.
Nel governo gialloverde non sarà certamente un primus inter pares, come avevano immaginato i padri costituenti, ma può essere ancora un timoniere responsabile ed esperto. E se anche fosse, ma non lo crediamo, semplicemente l’avvocato dei suoi due principali clienti, l’esecutore del contratto del «governo del cambiamento», non potrebbe sottrarsi alla deontologia professionale. «L’avvocato — recita l’articolo 24 del Codice forense — deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni e condizionamenti». Un legale ha il dovere di segnalare ai suoi clienti i rischi cui vanno incontro. Renderli edotti delle conseguenze di un atto che può apparire giustificato nel pieno di una polemica politica, ma dannoso in prospettiva. Se il Paese dovesse subire, per esempio, una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea, pagherebbe un prezzo elevato. Al di là di come andranno le elezioni europee della prossima primavera.
Il professor Conte ha mostrato, in questi primi tumultuosi mesi di governo, una certa moderazione. Più nelle parole che nei fatti, però. Quando dice, a Famiglia Cristiana, «fidatevi di me, questa manovra farà bene al Paese», vorremmo sinceramente credergli. Come saremmo indotti a non mettere in dubbio le mirabolanti ipotesi di crescita della nota di aggiornamento al Def. La nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza non prevede nemmeno un ipotetico pareggio di bilancio. Un acrobatico libro dei sogni. Ma quelli dei governi precedenti non erano privi di pecche. Si scommetteva anche allora che più deficit, la flessibilità ottenuta da Bruxelles, avrebbe prodotto più crescita e diminuito il rapporto tra debito e Prodotto interno lordo. La differenza oggi è che l’ombrello della Banca centrale europea si sta chiudendo e qualcuno che compri i nostri titoli di Stato dovremmo pur trovarlo. Il professor Conte non è un economista ma come avvocato del popolo o dei suoi due vivaci clienti dovrebbe soppesare rischi e opportunità, costi e benefici. È poi un esperto di arbitrati e dunque dovrebbe essere in grado di comporre interessi diversi, a volte confliggenti. Al valore dell’arbitrato, essendoci di mezzo il Paese, non vorremmo nemmeno pensare, parcella compresa.
P.s. Conte è devoto di padre Pio e tiene sempre una sua immaginetta in tasca. Bene. Se la porti sempre con sé. Anche i laici più accaniti sono d’accordo. Non si sa mai. Non vorremmo, un giorno, non avere più santi a cui votarci.
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