Alitalia di Stato, il Tesoro: operazione sbagliata. M5S adesso pensa al rimpasto

di Alberto Gentili

Luigi Di Maio sembra amare le sorprese. Il ministro dello Sviluppo e del Lavoro, prima di annunciare urbi et orbi il piano per far tornare lo Stato nel capitale di Alitalia, non ha informato né Giovanni Tria né Danilo Toninelli. Eppure, i due, sul dossier hanno competenze e voce in capitolo. Ma a cadere dalle nuvole sono anche i vertici di Cassa depositi e prestiti (Cdp) e i commissari di Alitalia.
Il più irritato e sorpreso di tutti è Tria, come ha dimostrato con la gelida battuta-frenata dettata da Bali dove è impegnato al vertice del Fondo monetario internazionale: «Penso che delle cose che fa il Tesoro debba parlarne il ministro dell’Economia. Io non ne ho parlato». E Di Maio, in mattinata, aveva annunciato che il Tesoro entrerà nel capitale di Alitalia con un 15%, su un totale di «dotazione iniziare» di 2 miliardi.

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Quello di Tria è un ruvido altolà, che smentisce la nota diffusa all’ora di pranzo da palazzo Chigi («il governo è compatto sul dossier Alitalia») in cui venivano elencati i sì di Di Maio, Matteo Salvini e del premier Giuseppe Conte ed erano dimenticati il responsabile dell’Economia e l’altro ministro competente: Toninelli. Come dire: quei due non contano nulla. O quasi. Ma, si sa, tra il capo 5stelle e il responsabile dei Trasporti le cose non vanno più come un tempo. Troppe gaffe e troppi errori. Tant’è, che Toninelli si è trincerato dietro a un tweet laconico: «Fs può dare un contributo decisivo a quella integrazione modale che serve per valorizzare le bellezze del nostro Paese».
Il nodo vero è Tria. Il ministro con più interlocutori, negli ultimi giorni, si era detto contrario all’ingresso dello Stato nel capitale di Alitalia. Perché per nulla allettato dal piano. E perché preoccupato per il probabile no di Bruxelles. Ma proprio Di Maio in serata è corso a ricordare, in una sorta di ultimatum al collega ribelle, che «il rilancio della compagnia di bandiera è contenuto nel contratto di governo». Dunque va attuato. Anche perché «sostenuto dal premier e da tutte e due le forze di maggioranza». Un vero e proprio aut aut.

LA RABBIA DEL MINISTRO
Da vedere come finirà. Chi conosce Tria racconta: «Giovanni è uno che non si arrabbia mai, ma quando si arrabbia diventa una belva. Risulta quasi ingovernabile…». Ebbene, il ministro non ha apprezzato affatto l’«invasione di campo» di Di Maio, con il quale bisticcia ormai da mesi ricevendo in cambio a settimane alterne velate (e poi negate) richieste di dimissioni. Dalla manina in luglio della Ragioneria generale contro il decreto Dignità, all’apparato tecnico del Mef che il grillino vuole smantellare. Dal braccio di ferro sulla nota di aggiornamento del Def, alle nomine nelle aziende partecipate.
Ed è proprio di ieri la notizia di un nuovo sgarbo: per nove volte Tria aveva mandato deserta l’assemblea del Gestore servizi energetici (Gse) per impedire l’ascesa di Roberto Moneta, candidato grillino, nel ruolo di ad. E cosa fa Di Maio? Mentre il rivale era a Bali ha compiuto quello che per Tria è «un colpo di mano»: la nomina, appunto, di Moneta al vertice del Gse.

Inutile dire che non l’ha presa bene. Anzi. Così tra i 5stelle c’è chi torna a parlare di dimissioni del ministro con un possibile rimpasto (Savona al suo posto) a gennaio, dopo la sessione di bilancio. Con un problema non da poco: lo scudo di Tria si chiama Sergio Mattarella che in maggio rifiutò di nominare l’economista sardo responsabile dell’Economia.
Lite nel governo a parte, c’è poi lo stupore degli altri protagonisti chiamati in causa da Di Maio. L’ad di Cdp, Fabrizio Palermo è temporaneamente indisposto, ma in ambienti vicini alla Cassa dicono: «Non abbiamo avuto alcun tipo di contatto e neppure la richiesta di predisporre il dossier Alitalia». Stesso reazione dai commissari della compagnia, Gubitosi, Laghi e Paleari: «Del piano Di Maio non sappiamo nulla».

IL MESSAGGERO

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