L’inefficace salto della rana

L’idea che i poveri vadano aiutati in quanto privi di reddito ha sempre incontrato forti resistenze culturali nel nostro Paese. Eppure la mancanza di risorse economiche non è volontaria, dipende da dinamiche più grandi di individui e singole famiglie, proprio come nel caso della disoccupazione. Risente inoltre di pesanti condizionamenti sociali. Nell’Italia di oggi vivono in povertà assoluta più di dieci minori ogni cento. Come si potrebbe anche solo lontanamente pensare che sia «colpa loro», che non siano anche «fatti nostri»? Del resto il contrasto agli svantaggi sociali arreca benefici, non solo ai singoli individui ma a tutta la società, sotto forma di maggiore coesione, a sua volta fattore di sviluppo. Letto su questo sfondo, il reddito di cittadinanza non suscita perplessità. Del resto, misure simili esistono in tutti i Paesi Ue. Ma la riforma non convince. Per chi conosce il dibattito internazionale e abbia familiarità con le esperienze straniere e italiane su questo terreno, l’impostazione di base non è condivisibile. Così come attualmente progettato (per quanto si riesce a capire) il reddito di cittadinanza aggira infatti tutti i problemi da cui dipende il fenomeno povertà nel nostro Paese e punta solo sull’ultimo passo: il sussidio. Un azzardato «salto della rana», che rischia di condurre a un serio fallimento. Per combattere la povertà occorre un ventaglio di politiche preventive, riparative e compensative.

I Paesi con minor tasso di povertà hanno buoni sistemi educativi (preparazione), robuste politiche attive per il lavoro, la formazione e l’inclusione (riparazione) e una vasta gamma di prestazioni monetarie (compensazione): per i figli, la disoccupazione, il sostegno agli affitti e così via. Sono sempre più diffusi anche i sussidi alle basse retribuzioni, responsabili della forte crescita dei cosiddetti working poor, lavoratori che, pur occupati, restano sotto la soglia di povertà. Solo al fondo di questo articolato sistema, per chi non ha trovato appoggi di altra natura è disponibile un’estrema rete di sicurezza: la garanzia di un reddito minimo, appunto. Tipicamente accompagnato da misure di assistenza sociale mirata.

A causa di molteplici distorsioni evolutive, nel nostro sistema di welfare questi tasselli sono a tutt’oggi inadeguati o addirittura mancanti. Per esempio, esistono iniziative solo sporadiche contro la povertà educativa dei minori (deficit di prevenzione) o per la formazione, non solo dei giovani, ma anche di chi ha perso il lavoro (deficit di «riparazione»). In Francia o Germania una famiglia senza reddito con due figli riceve fra i 400 e i 500 euro al mese, in Italia non ha invece diritto ad alcun assegno (deficit di compensazione per carichi di famiglia). Non abbiamo un sistema di sussidi alle basse retribuzioni, le detrazioni fiscali non vengono neppure riconosciute agli incapienti. Pochissime le borse di studio: in Italia le ricevono meno dell’8% degli studenti, contro il 35% della Francia e il 65% della Svezia. Si dirà: che c’entra tutto questo con il reddito di cittadinanza? C’entra. È proprio grazie a questi punti d’appoggio che la quota di poveri è molto più bassa negli altri Paesi. La mancanza di reddito è combattuta a monte, prima che si verifichi: un vantaggio per tutti. Il progetto governativo scarica invece tutte le tensioni su un’unica prestazione, il reddito di cittadinanza. In molti contesti del Sud questa prestazione diventerà non l’ultima, ma l’unica spiaggia su cui approdare. E poi?

E qui arriviamo al secondo grave sbaglio di impostazione. Il reddito di cittadinanza viene essenzialmente presentato come strumento di inserimento lavorativo. Ciò presuppone che esista una domanda di occupazione inevasa nei contesti dove vivono i richiedenti. In qualche area territoriale può essere almeno parzialmente così. Ma, soprattutto al Sud, ciò è tutt’altro che scontato. Il mercato occupazionale italiano sconta un cronico e massiccio deficit di posti di lavoro, che ci portiamo dietro da decenni. Un deficit che non riguarda l’industria ma i servizi, in particolare il cosiddetto terziario sociale (sanità, assistenza, servizi di prossimità) a cui si aggiungono turismo, ricreazione, cultura. È quasi superfluo sottolineare che per stimolare la domanda di lavoro in questi settori occorrono misure e incentivi mirati. Che costano, certo. Ma che potrebbero generare volani occupazionali tali da rendere moltissimi poveri, in moltissime aree, economicamente auto-sufficienti. Senza questi volani, i beneficiari del reddito di cittadinanza avranno invece un’altissima probabilità di restare confinati nell’unica spiaggia disponibile, peraltro sottoposti ad un regime di disciplina su scelte di vita e consumi.

Perché il governo insiste su questa strada, buttando all’aria l’esperienza maturata con il reddito d’inclusione (Rei) e con le tante altre misure sperimentate a livello locale? Perché si avventura su un piano inclinato da cui non sarà facile tornare indietro? La risposta è: l’abbiamo promesso agli elettori. Non è così. Non hanno promesso affatto questa specifica impostazione e queste specifiche modalità di attuazione. Dicendo «faremo il reddito di cittadinanza» i Cinque Stelle hanno preso l’impegno a contrastare seriamente la povertà, non a improvvisare una riforma senza capo né coda. Peraltro ora Di Maio è il vice presidente di un esecutivo che rappresenta la nazione e che deve rispondere a tutti gli elettori. La democrazia funziona così. Chi governa deve dar conto anche ai tanti cittadini, commentatori ed esperti che sul reddito di cittadinanza chiedono una pausa di riflessione, uno sforzo progettuale più serio e approfondito. Nel frattempo si può rafforzare il Rei. La posta in gioco è troppo importante per ridurla a una questione di consenso in vista delle elezioni europee del prossimo maggio.

CORRIERE.IT

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