In rotta di collisione
di BRUNO VESPA
Ci sono due treni in corsa sullo stesso binario che provengono da direzioni opposte. Il primo è condotto da Di Maio e Salvini, il secondo da Juncker e da Moscovici su mandato di Macron. Al centro del binario tre uomini agitano bandierine rosse: Mario Draghi e – con vessilli più piccini ma agitatissimi – Giuseppe Conte e Giovanni Tria. Chi frenerà per primo, se frenerà? Da nessuna parte, finora, ci sono segni di frenata. Draghi, accusato ieri da Di Maio di ‘avvelenare il clima’, si è limitato a due considerazioni tecniche: la prima è che uno spread alto mette in crisi il sistema bancario, il secondo è che il mandato del presidente della Banca centrale europea non prevede il sostegno a paesi in deficit, a meno che questi non stiano fallendo (come accadde alla Grecia) e venga chiamata per salvarla – alle proprie, pesantissime condizioni – la trojka economica (Bce, Commissione europea, Fondo monetario internazionale).
D’altra parte, che non si regga un spread alto lo hanno riconosciuto negli ultimi due giorni sia il presidente del Consiglio che il suo ministro dell’Economia. Se alcune banche stanno per saltare e non hanno i soldi per chiedere nuovi capitali al mercato, deve intervenire il governo.
È denaro dato in prestito e destinato a rientrare, come rientrarono i quattro miliardi concessi la prima volta al Monte dei Paschi, prima che la crisi lo travolgesse costringendo lo Stato a diventarne (per ora) azionista. Lo hanno fatto gli americani e gli inglesi. Altri paesi europei lo fecero prima che i buoi scappassero dalla stalla, scrivendosi (la Germania) regole su misura. L’Italia disse allora che non ne aveva bisogno. Oggi la situazione è pesantissima e ieri Salvini ha detto che il governo è pronto a salvare gli istituti che ne avessero bisogno. D’altra parte, con i prezzi di oggi molti signori facoltosi nel mondo potrebbero comperare per quattro soldi l’intero sistema bancario italiano. Non sarebbe un buon affare per il Paese.
Di Maio e Salvini dicono di dover onorare le promesse fatte agli elettori e non accettano interferenze («Voglio un’Europa in cui i governi possano spendere i loro soldi», ha detto ieri il leader della Lega). Conte e Tria cercano di spiegare (per ora invano) che il deficit programmato non è devastante, altri lo hanno fatto in passato e comunque occorreva muoversi visto che il Paese non cresce da vent’anni. Juncker e Moscovici dicono che le regole sono quelle e vanno rispettate. Ma a chi conviene lo scontro tra i due treni? Non all’Italia, perché pagare un mucchio di interessi in più per uno spread che esplode annulla gli effetti benefici della distribuzione di denaro ipotizzata con la legge di bilancio. Non all’Europa perché senza l’Italia essa non esisterebbe. A chi gli ha chiesto se le sanzioni non finirebbero per avvantaggiare i populisti alla guida del governo italiano nella campagna elettorale di primavera, Draghi ha risposto: «È una domanda molto interessante. Fatela alla Commissione», mostrando così di condividerne il senso. L’Europa guarda alla forma, l’Italia alla sostanza: entrambe devono salvare la faccia. Le bandierine rosse sono ben visibili. Sarebbe sciocco se entrambi i treni non frenassero insieme.
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