Di Maio, la Bce e le pretese maldestre
C’è una tensione verbale continua che pervade l’Italia in questi ultimi mesi. Duole dirlo ma è alimentata da chi, stando al governo, dovrebbe avere tutt’altro interesse che esacerbare toni o conflittualità. I commenti che il vicepremier, Luigi Di Maio, ha indirizzato verso la Banca centrale europea e segnatamente al presidente Mario Draghi, appaiono come un attacco senza precedenti a un’istituzione che sull’indipendenza fonda la sua efficacia. E ha fatto questo affondo in uno dei momenti più difficili per il nostro Paese, dalla crisi dei debiti sovrani del 2010, visto che ci troviamo oggi ad affrontare mercati diffidenti e agenzie che misurano, con altrettanta diffidenza, la nostra affidabilità.
Sorprende lo stupore del vicepremier quando dice: «Siamo in un momento in cui bisogna tifare Italia e mi meraviglio che un italiano si metta in questo modo ad avvelenare il clima ulteriormente». È più che una stonatura l’uso del verbo «avvelenare» riferendosi alle parole di Draghi pronunciate giovedì a Francoforte nella consueta conferenza stampa che segue la riunione della Banca centrale europea.
L’errore sta nel dimenticare quale sia il ruolo del presidente della Bce e il perché sia doveroso che nella sua azione sia trasparente e indichi con nettezza quali sono le linee guida della sua azione.
È l’errore di chi crede che la democrazia inizi e finisca il giorno del voto mentre è qualcosa di più complesso che continuare a sentirsi in una campagna elettorale permanente: dalle elezioni politiche nazionali a quelle europee passando per le locali.
A garantire la salute democratica di una comunità ci devono essere, per quanto non eletti, altre istituzioni, altri organismi. Come la Bce. Gestire i rischi per l’economia rientra a pieno nel mandato della Banca centrale europea che Draghi interpreta. Guai se non venissero individuati. Se i pericoli non fossero messi a fuoco, resi evidenti e combattuti. Come ha detto ieri lo stesso Draghi, la Banca centrale non può essere soggetta al dominio della politica o delle politiche di bilancio e deve essere libera di scegliere gli strumenti che le sono più appropriati nell’ottemperare al suo mandato.
Non è stata una indicazione facile quella di Mario Draghi alla guida della Bce. A suo tempo proprio per il suo passaporto. Ma, presa in mano una delle poche istituzioni dell’Europa nel pieno della crisi del debito e con gli spread che sembravano impazziti, è riuscito a guadagnarsi una autorevolezza riconosciuta in ogni ambito, politico ed economico.
Il suo intervento nel luglio del 2012 per garantire che la Bce «avrebbe operato e usato qualsiasi strumento in suo possesso per salvare l’euro», entrerà nei libri di storia. Non solo per essere riuscito nel suo intento ma proprio per aver in maniera trasparente esplicitato la sua analisi e le ragioni della sua azione.
Le parole di Di Maio dette ieri mostrano una volontà di trascinare le istituzioni in una battaglia che non è la loro. Dovrebbe il ministro ben conoscere i limiti di una Banca centrale europea e al tempo stesso le sue prerogative. Non è possibile che ignori la responsabilità che comporta il ricoprire un così importante incarico di governo.
La mancata comprensione del suo ruolo è emersa nel chiedere l’impeachment per il capo dello Stato nel corso dei colloqui per arrivare alla formazione di un governo; nell’insinuare sospetti su «manine» che inseriscono norme in provvedimenti del governo che lui guida assieme a Conte e Salvini; e infine nel ritrovarsi in rotta di collisione con la Bce e Draghi.
Tommaso Padoa-Schioppa in un articolo del 1984 sul Corriere ricordava le parole pronunciate da Bonaldo Stringher quando nel 1900 fu nominato direttore generale della Banca d’Italia. «È mio fermo intendimento che la Banca d’Italia rimanga fedele alle sue corrette tradizioni e la sua amministrazione sia ognora informata al concetto di una osservanza scrupolosa alle leggi e agli statuti che la reggono, e della doverosa deferenza verso chi rappresenta lo Stato. Ciò darà forza all’amministrazione per ottenere che le sorti dell’istituto siano efficacemente tutelate dai poteri pubblici. Così potrà essere agevolata la soluzione di quei problemi i quali intendano all’inseparabile interesse dell’economia nazionale e della Banca; mentre questa potrà opporre una più salutare resistenza verso qualunque indiscreta pretesa».
In tempi di modernismo e web basterà un tweet o un post su Facebook per tentare di ridicolizzare quelle parole o il richiamo a esse. Ma sarebbe ben poco lungimirante. La forza di un Paese è data dalle sue istituzioni. E più sono longeve (la Dichiarazione d’indipendenza americana data 1776 ed è solo un esempio) e più sono alimento per la crescita. Chi, come Di Maio, si è assunto il compito non di conquistare più voti ma di governare il Paese, dovrebbe esserne il principale interprete. E non l’inconsapevole demolitore.
CORRIERE.IT
This entry was posted on sabato, Ottobre 27th, 2018 at 08:39 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.