Quell’ipotesi patrimoniale. “Se arriva non ci sono difese”
«In giro c’è aria di patrimoniale…» commenta davanti a un caffè il tributarista Giuseppe Nucera, a pochi passi dal suo studio in piazza Duomo a Milano.
Allievo di Vicktor Uckmar con il pallino delle start-up («sembra strano ma l’Italia è fiscalmente il miglior Paese europeo dove localizzarle»), si muove tra Bratislava, Londra e Lugano e si occupa di diritto fallimentare e tributario. Gli scossoni a Piazza Affari e l’impennata dello spread, ormai stabilmente sopra quota 300, sembrano prefigurare l’ennesima stangata per il ceto medio. «D’altronde, l’ha detto anche Moody’s, no?».
Uno dei modi più semplici, spiega, sarebbe «inasprire la tassa di successione», che oggi scatta sopra il milione di euro. Per aggirarla «ci sono strumenti per il passaggio generazionale (come ad esempio il trust), che perfeziona la traditio del bene esentandolo da imposizione ma l’utilizzo di uno o più strumenti solo per pagare meno imposte, prescindendo da valide ragioni economiche, non è consentito».
Già, il problema vero è la giungla fiscale che ogni contribuente conosce bene. «La stessa Costituzione che chiede di pagare tasse in ragione della propria capacità contributiva ci consente di determinare una configurazione fiscale più favorevole». Una contrapposizione tra un dovere e un diritto che «viene stiracchiata, troppo spesso pro fisco e raramente pro contribuente». È il caso della patrimoniale, che si calcola «sullo stock di beni e attività acquisiti mediante redditi già tassati». Non a caso, ricorda Nucera, «Einaudi già nel 1946 la definiva la tassazione dello stesso reddito considerata da una prospettiva diversa, una sorta di trasferimento automatico della ricchezza dal privato allo Stato». Con il paradosso, sottolinea, che se un soggetto non produce redditi «deve comunque pagare delle imposte».
Come sfuggire? «In questo clima di polizia fiscale e di scambio di informazioni a livello internazionale (dal Facta alla Crs) è quasi impossibile. Ci sono una serie di presunzioni e di strumenti antiabuso che annullano ogni discrezionalità. Certo, esistono strumenti che sfruttano le pieghe della normativa per mitigare l’imposizione ma si rischia l’avvio di contestazioni e un contenzioso con costi, tempi ed esiti del tutto incerti». Anche se si ha ragione.
Il consiglio che sempre più professionisti e imprenditori si sentono dire è: trasferire armi e bagagli in Paesi extra Ue (dalla Svizzera a Monaco fino ai paesi jugoslavi come Montenegro, Serbia, Macedonia o Croazia) che hanno un regime fiscale molto vantaggioso. Ma portare – in maniera del tutto lecita – i propri soldi all’estero non significa non pagare dazio. «C’è già la tassa sui soldi all’estero. Si chiama Ivafe e ammonta al 2 per mille del patrimonio detenuto all’estero».
L’altro grande malato d’Italia si chiama credito. Quante banche italiane rischiano di saltare? E cosa succederebbe ai correntisti, chiamati a concorrere al crac con i soldi sul conto? La direttiva Ue sul bail in in teoria potrebbe toccare anche i depositi dei risparmiatori oltre l’importo di 100mila, non coperti dal Fondo interbancario. «Chi ha un conto dovrebbe verificare «qual è la garanzia teorica e la capacità del garante di coprire gli importi con la propria tesoreria (solidità) rispetto all’ammontare delle garanzie azionate». E se arrivasse il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, come fece il governo Amato? In ballo ci sono 1.350 miliardi di euro che giacciono nei conti correnti. «Sarebbe una misura momentanea, come l’eurotassa di Prodi del 1996. Il problema è strutturale. C’è una spesa pubblica fuori controllo e c’è un sistema bancario instabile rappresentato da un insieme di banche statali legate da un filo sottile. È un doom loop, un abbraccio mortale. Lo Stato non può permettersi la crisi delle banche perché detengono un terzo del debito sovrano».
IL GIORNALE