Quando Grillo e Di Maio brindavano al “downgrade”

«Tutti sappiamo che le agenzie di rating non meritano alcuna fiducia. Non si tratta quindi di pendere dalle loro labbra, ma di riconoscere che all’interno di questo sistema finanziario globale il loro parere conta, perché muove gli investitori e influenza così la stabilità dei governi».

È il ragionamento di chi mette in guardia dagli azzardi della manovra gialloverde? O di qualcuno che «rema contro» gli interessi del popolo italiano, come dice Di Maio dopo l’ultima pagella in chiaroscuro di Standard & Poor’s? Sorpresa: né l’uno, né l’altro. Lo scriveva il Movimento 5 Stelle sul blog di Beppe Grillo. Solo che il calendario recita gennaio 2017, e allora faceva comodo chiedere la testa di Renzi, Padoan e Gentiloni. Riavvolgendo ancora un po’ il nastro delle sparate, a dicembre 2014 le stesse tre B (con il segno meno) assegnate da S&P all’Italia facevano ballare Beppe sulle note di un famoso samba. «BBB non è Brigitte Bardot Bardot», significa «spazzatura». Unica speranza: «Siamo nelle mani di Draghi». Ovvero lo stesso arbitro che oggi «non aiuta» il suo Paese (copyright del pupillo vicepremier).

Ha qualcosa di proustiano il tempo nell’universo grillino. Non procede in senso lineare, piuttosto si contorce a seconda della convenienza. Lo ha già fatto notare Gian Antonio Stella sul Corriere. Nell’estate 2011, in piena tempesta da spread su Palazzo Chigi, Grillo scrisse un’accorata lettera-appello al capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Spettabile presidente, quasi tutto ci divide, tranne il fatto di essere italiani e la preoccupazione per il futuro della nostra Nazione. L’Italia è vicina al default, i titoli di Stato, l’ossigeno (…) che mantiene in vita la nostra economia, che permette di pagare pensioni e stipendi pubblici e di garantire i servizi essenziali, richiedono un interesse sempre più alto per essere venduti sui mercati». Eccetera eccetera, come un Moscovici qualsiasi. Fino all’esplicita richiesta di far fare le valigie al governo Berlusconi, come effettivamente avvenne di lì a poco. Lo spread, che tanto allarmava il paraguru genovese, in quei giorni bollenti di 7 anni e mezzo fa ronzava attorno a quota 340. L’altro giorno ha toccato i 320 punti, ma stavolta a Sergio Mattarella non è arrivata nemmeno un’e-mail.

È la teoria della relatività del rating, secondo una formula riveduta e corretta che suona come Esecutivo Conte uguale M5s X (in)Coerenza al quadrato. Prendete un’altra perla dagli abissi pentastellati: 22 aprile 2017, Fitch ha appena certificato il downgrade dell’Italia. «Una lenta agonia che ci porterà nel baratro finanziario. Non ci sono scuse che tengano. (…) La realtà è che il nostro debito pubblico sta diventando davvero insostenibile e che rischiamo un default, magari scatenando una crisi bancaria nazionale». Firmato, guarda un po’, Luigi Di Maio. Nel 2018 si potrebbe copiare e incollare sulle bacheche di Facebook, il guaio è che in due minuti finiresti bannato da Luigino e accusato di stare dalla parte dei poteri forti, di non saper andare oltre i numeri «senza cuore».

Altro giro di orologio, ennesima capriola. Nel gennaio 2015, per i senatori M5s le agenzie di rating vanno prese molto sul serio. A proposito della crisi greca, «anche Moody’s lo ammette. Fuggire dall’euro non è una minaccia, ma una opportunità». Tre anni e nove mesi dopo, il presidente della Commissione politiche Ue di Palazzo Madama Ettore Licheri interviene in Aula a nome del Movimento e fa inversione a U: «Se in questo Paese i governi e le leggi le fanno le agenzie di rating, allora ci alziamo e ce ne andiamo». Se è per questo, pure buon senso e coerenza dalle parti dei 5 Stelle non si vedono da un pezzo.

IL GIORNALE

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