Vittorio Veneto, i fanti (e le battaglie) che fecero l’Italia

Circola in rete una leggenda, secondo cui la battaglia convenzionalmente chiamata di Vittorio Veneto non ci sarebbe mai stata. Sapientoni digitali arrivano a scrivere che in questi stessi giorni, cent’anni fa, l’esercito italiano non avrebbe avuto neppure un morto. In realtà, solo tra il 24 e il 26 ottobre 1918 la IV Armata perse nell’offensiva sul Grappa 23.600 soldati e 824 ufficiali. Alcuni reparti, come il VII raggruppamento alpini, ebbero tremila uomini fuori combattimento: una proporzione superiore a quella delle giornate peggiori sul Carso. Non solo la battaglia che concluse la Grande guerra ovviamente ci fu, ma all’inizio risultò durissima e sanguinosa. Gli austriaci resistettero con vigore. Poi cedettero di schianto, e vissero la loro Caporetto: inseguiti, accerchiati, disarmati a centinaia di migliaia. Terminava così la più spaventosa guerra che l’uomo avesse mai conosciuto. Una guerra, sia chiaro, che era meglio non fare, in cui l’Italia non sarebbe dovuta intervenire. Una guerra iniziata male, con una forzatura al limite del colpo di Stato e una ferita letale al potere e al prestigio del Parlamento, e condotta peggio, con una tattica ottusa quando non criminale. Ci furono in tutto il primo conflitto mondiale non più di dieci episodi attestati in cui mitraglieri smettono di sparare sul nemico che avanza perché ne hanno pietà. Uno avviene a Gallipoli, dove un ufficiale turco ordina di risparmiare fanti australiani (lo racconta Mark Thompson ne La guerra bianca, il Saggiatore). Gli altri accadono sul fronte dell’Isonzo; e sono i nemici che smettono di sparare sui nostri fanti. Il più celebre tra questi rarissimi episodi è quello raccontato da Emilio Lussu in «Un anno sull’altipiano»: un austriaco, forse un cappellano militare, grida in un italiano stentato: «Basta! Bravi soldati! Non fatevi uccidere così!».<

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Questo non accade perché gli austriaci fossero buoni («sei cattivo come un austriaco» era il rimprovero che i ragazzi del ’99 rivolgevano ai nipoti quando si comportavano male), ma perché gli assalti italiani erano spesso insensati. I nostri fanti attaccavano sempre in salita, sovente senza l’appoggio dell’artiglieria. I generali, talora di origine aristocratica, non erano neppure sfiorati dall’idea che la vita dei loro soldati analfabeti valesse quanto la propria. Va detto però che molti ufficiali morivano accanto ai loro uomini, a volte al posto loro: come il tenente degli alpini che si fa uccidere per porre fine a un assalto senza speranza, togliendo di mezzo il comandante incaricato di guidarlo: lui. Tutti gli altri eserciti commisero inutili crudeltà. Ma nessuno, tranne quello russo, fece ricorso alla decimazione con la cieca sistematicità patita dai nostri fanti. Mentre alle famiglie dei prigionieri — «imboscati d’Oltralpe» li chiamava D’Annunzio, la cui responsabilità nell’aver trascinato l’Italia in guerra è immensa — , veniva vietato di inviare viveri ai loro cari, che a migliaia morirono di fame e di stenti. Anche così si spiega la rotta di Caporetto, la crisi di fiducia del nostro esercito.

Ma come si spiegano allora il Piave e il Grappa? Sulle ragioni del crollo ci si è esercitati a lungo. Ancora per il centenario sono usciti su Caporetto decine di libri, alcuni di valore. Libri di successo sul Piave non se ne fanno. La vittoria interessa poco, al punto che viene negata. Per una volta, il giudizio di molti accademici e quello popolare coincidono. La storia nazionale è presentata come una serie di disgrazie: la «Controriforma senza Riforma», il «Risorgimento incompiuto», la «vittoria mutilata» (ancora D’Annunzio), la «Resistenza tradita», i «proletari senza rivoluzione». Se poi dall’accademia si scende al web, ecco che il Risorgimento non è stato che una congiura massonica, la Resistenza un falso mito se non un imbroglio ideologico, e la vittoria nella Grande guerra non è mai esistita. Invece no. Sul Piave e sul Grappa la guerra cambia segno. Non si tratta più di conquistare montagne dal nome slavo che nessuno dei nostri nonni aveva mai sentito nominare, di entrare in città italiane in cui nessuno di loro era mai stato. Si tratta di difendere la patria e la famiglia. Di salvare la pelle, la dignità, la nazione. Di impedire che anche alle donne al di qua del Piave venisse fatto quello che stavano subendo le donne sull’altra sponda del fiume. Di badare alla terra: cosa che i fanti contadini sapevano fare, anche se analfabeti. Fu la vera nascita della nazione. Eravamo un popolo giovane. Non ci conoscevamo tra di noi. Faticavamo anche a capirci: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo essere spazzati via; resistemmo. Dimostrammo di non essere più «un’espressione geografica». Fu una mobilitazione di cui l’Italia non era mai stata capace e di cui non sarebbe più stata capace, se non forse negli anni più duri della Ricostruzione. Allo sforzo bellico parteciparono tutti, anche i civili, anche e soprattutto le donne: che dimostrarono di saper fare le stesse cose degli uomini, magari meglio. Le donne coltivarono i campi, e la produzione agricola restò invariata. Lavorarono in fabbrica, e ressero il ritmo alla catena di montaggio. Furono crocerossine, portatrici, croniste di guerra, spie, talora soldate (la maestra Luisa Ciappi si vestì da uomo per andare a combattere, ma fu riconosciuta e rimandata a casa).

L’Italia non avrebbe vinto la Grande guerra senza le donne italiane. Non a caso è del 1919 la riforma che riconosce alle donne la capacità giuridica; prima non potevano stipulare un contratto senza la firma del marito o del padre; ma avevano dimostrato di saper mandare avanti l’Italia, e non si poteva più trattarle da cittadine di serie B. Per tutte queste ragioni, è giusto celebrare il 4 novembre. Ricordare, in un Paese dalla memoria corta, il sacrificio di 650 mila fanti, dei mutilati, dei prigionieri, dei combattenti. Non ne è rimasto nessuno; la loro memoria è affidata a noi. Faremmo bene a trasmetterla ai nostri figli e nipoti, convinti di essere una generazione sfortunata e vinta ancora prima di combattere.

CORRIERE.IT

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