Manovra, reddito di cittadinanza a rischio flop

di CLAUDIA MARIN

Roma, 4 novembre 2018 – Rischio trappola o rischio flop. Il destino del reddito di cittadinanza di matrice grillina oscilla, secondo addetti ai lavori ed esperti del settore che operano nelle stesse strutture del ministero del Lavoro, tra i due estremi indicati. E così, mentre la misura-bandiera dei 5 Stelle finisce al centro della contesa con la Lega (con Armando Siri che, dopo Giancarlo Giorgetti, la mette in discussione), crescono anche le perplessità e le obiezioni di chi si «occupa» di povertà e di politiche attive da qualche decennio.

Nel mirino una serie di aspetti dell’operazione che rischiano di trasformare l’intervento o in una trappola assistenziale senza uscita o in un sostegno per pochi e, dunque, in una soluzione-beffa rispetto alle aspettative. Da un lato, infatti, per le caratteristiche della platea interessata (persone in povertà assoluta) lo strumento può rivelarsi inappropriato ai fini dell’attivazione lavorativa, con la conseguenza di diventare «eterno».

Dall’altro, se i requisiti saranno eccessivamente stringenti (Isee contenuto, esclusione di chi ha casa o altri sussidi), rimarranno fuori moltitudini di «poveri» con tutte le conseguenze del caso. In mezzo, tutte le difficoltà applicative: dalla messa a punto della strumentazione (card selettive per spese ammesse, banche dati e via di seguito) alla predisposizione di misure deterrenti per evitare i furbetti del reddito (con lavoratori che passano in nero per averlo, per esempio).

Ecco i punti critici della misura:

1 – Assegno per poveri o disoccupati? Uno strumento troppo confuso

La versione italiana del reddito di cittadinanza rischia di essere uno strumento confuso e contraddittorio. O è sul modello dell’attuale Naspi e, dunque, è rivolto a chi ha perso il lavoro o è sul modello del Reddito di inclusione, destinato a coloro che si trovano in povertà assoluta. Fare un mix (voler contrastare la povertà con un sussidio di disoccupazione) distorce la funzione dello strumento come esiste in tutti gli altri Paesi europei. E produce effetti boomerang. La povertà – si fa notare – non deriva solo dalla mancanza di lavoro, ma da problemi di salute, disabilità psichiche, abuso di sostanze, compiti di cura familiare. E in questi casi l’attivazione di percorsi lavorativi è in larga parte impossibile. Senza contare che il sostegno dovrebbe andare anche ai ‘working poor’, i lavoratori poveri che guadagnano meno della soglia di povertà.

2 – Dipendenti a carico dei Comuni. L’effetto del sussidio a vita

Se la platea di riferimento è quella dei 5 milioni di persone che vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il rischio è che il reddito di cittadinanza si trasformi in un sussidio a vita. La stessa origine della condizione di povertà (problemi di salute, disabilità, abuso di sostanze) o lo svolgimento di lavori a bassissimo reddito possono condurre al fallimento dei percorsi di reinserimento lavorativo o non farli neanche cominciare. In Germania (con servizi sociali e per il lavoro di eccellenza) solo il 30% dei destinatari del sostegno anti-povertà trova lavoro, un altro 30 è irrecuperabile e un altro 30 ottiene solo la «speranza» di un lavoro. Se l’esito fosse analogo in Italia che fine farà il 60% dei beneficiari del reddito di cittadinanza dopo 18-24 mesi? Rischio di proroghe su proroghe con bacini di lavoratori socialmente utili a carico dei Comuni.

3 – Centri per l’impiego, si cambia. Ma resta il rebus assunzioni

Uno dei punti cardine del progetto grillino di reddito di cittadinanza è quello relativo al potenziamento e al rilancio dei centri per l’impiego. In ballo due miliardi per 2019 e 2020. Ora – osserva un super-esperto del settore – anche lasciando da parte tutti gli aspetti connessi all’infrastrutturazione digitale del sistema, c’è il problema delle assunzioni dei nuovi operatori. Ebbene, si ipotizza l’ingresso di 4mila nuove unità (in aggiunta agli 8mila in servizio): solo perché le Regioni facciano i bandi per i concorsi ci vorranno almeno sei mesi, poi ci saranno le prove, poi i ricorsi. Insomma, nella migliore delle ipotesi, passerà un anno. Si pensi che per l’ingresso a tempo determinato di 1.600 addetti, l’operazione, partita nel 2016, ha prodotto l’assunzione effettiva a oggi di non più di 10-12 unità. D’altra parte, in Germania la riforma di inizi anni 2000 è entrata a regime in quattro-cinque anni.

4 – Lavoro e recupero sociale, lo schema non convince

L’endasi posta sul rilancio dei centri per l’impiego ha fatto passare in secondo piano il nodo, non sciolto, del ruolo che dovrebbero avere i servizi sociali e socio-assistenziali dei Comuni. Eppure, a detta di coloro che hanno lavorato al Reddito d’inclusione, prima ancora dei servizi per il lavoro, nel contrasto della povertà vengono le strutture che si trovano sulla frontiera delle emergenze sociali. Se la platea individuata è quella della povertà assoluta, il cosiddetto «riduzionismo lavoristico» può rivelarsi catastrofico per la riuscita dell’operazione. Serve, insomma, nella maggior parte dei casi, prima il recupero e poi l’attivazione lavorativa. Capovolgere lo schema può condurre anche al fallimento dello stesso tentativo di recupero sociale.

QN.NET

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