Maltempo, tra i resistenti del Bellunese: «Che rovina, senza turisti siamo finiti»

Maltempo, tra i resistenti del Bellunese: «Che rovina, senza turisti siamo finiti»

La jeep del soccorso alpino procede lenta, schiva sassi, aggira cumuli di terra, passa sotto tronchi spezzati e sporgenti. Alla guida c’è Geremia Pellegrini, 68 anni e un passato da infermiere. Conosce come le sue tasche la vallata del torrente Cordevole, eppure ci sono moltissimi scorci che ora gli sembrano diversi. Al suo amico e ortopedico in pensione Massimo Costa — che con lui condivide il tempo da volontario del soccorso alpino — Geremia indica un punto, poi un altro, un altro ancora. «Prima non si vedeva», dice ogni volta. «Prima», cioè fino a una settimana fa, il verde degli alberi nascondeva frazioni intere, vecchi casolari, pareti di roccia, caseggiati, tratti di strada. Adesso che centinaia di migliaia di piante non sono più al loro posto è come se la gente della valle vedesse un panorama nuovo, diverso.

Il lago

La jeep sale da Agordo verso Alleghe e il suo lago, mentre Geremia e Massimo raccontano della strada nuova costruita dopo l’alluvione del 1966: una specie di spartiacque fra le vecchie infrastrutture della valle e le nuove. «Quella volta l’acqua mi portò via la casa» racconta Geremia che all’epoca era ragazzino a Gosaldo, il Comune a pochi chilometri da Agordo dove vive ancora adesso e dove il vento e la pioggia di lunedì scorso hanno lasciato il segno. Alleghe è una stazione sciistica a mille metri di altitudine, da lì partono le funivie ma basta dare un’occhiata al cumulo di sassi che ha preso il posto del parcheggio degli sciatori per capire che la stagione è compromessa, quantomeno la parte iniziale. Ovunque si guardi si vedono pezzi di bosco rasi al suolo. Gli alberi sono stecchini spezzati e sparsi sui crinali, il vento si è divertito a buttarli giù a casaccio, così ci sono angoli rimasti intonsi nel bel mezzo di aree completamente devastate. E dove non ha fatto danni il vento ci ha pensato la pioggia. Attilio Bressan, 73 anni e la vita fra le poche case di Malga Ciapela, si è preso cura della centrale Enel di fronte a casa sua per 30 anni. Dice di aver sentito dei tecnici fare una stima che lui ritiene verosimile: «Raccontavano stavolta l’acqua è stata tre volte quella del ‘66».

Grandi massi

Lungo la strada che porta al Rifugio Fedaia (pochi passi dal confine con il Trentino) ci sono grandi massi che qualcuno ha spostato dal centro della carreggiata e altri che incombono sulla strada e che bisognerà far saltare con microcariche di dinamite. Ovunque i boschi hanno cambiato faccia e ogni rivolo ha portato giù quantità enormi di sassi, ghiaia e fango. I tralicci dell’energia elettrica, soprattutto nella zona di San Tomaso Agordino, sono piegati e inutilizzabili e per evitare che intere frazioni restassero al buio sono stati messi in funzione 1.200 gruppi elettrogeni. Anche se non parliamo più di migliaia, com’era fino a due giorni fa, di case senza corrente ce ne sono ancora e all’Enel giurano «la situazione sta tornando alla normalità» grazie al lavoro di 1.500 persone. Di sicuro Lorena Casarin, 59 anni, di Mestre, ieri era al buio nella sua casa di villeggiatura a Palue, dov’è arrivata a spalare fango dalla cantina e dal garage. C’era sua figlia Rosa, la sera del disastro. «Ci siamo sentite al telefono mentre il torrente accanto trascinava a valle sassi e il vento faceva volare tetti. Sali al pianerottolo dell’appartamento di sopra e aspetta i soccorsi» le ho detto. «Poi il segnale è scomparso e mio marito Luigi non ha saputo aspettare notizie dai soccorritori. È arrivato fino dove ha potuto con l’auto e poi si è fatto 40 chilometri a piedi sotto la pioggia per raggiugnere Rosa». Che era sana e salva.

I fienili

Poco più in là, a Sottoguda, ci sono fienili senza più i tetti e strade disastrate. Dall’alto si vede la vecchia strada che porta a Malga Ciapela, in fondo alla gola del torrente Pettorina. È un’attrazione turistica per gente che arriva da ogni parte del mondo. Era. Perché adesso è crollata in gran parte. «Non abbiamo più quella, non abbiamo più la briglia di difesa di Sottoguda, non ci sono più gli argini, non abbiamo più l’acquedotto, le piste da sci non esistono più, gli impianti sono danneggiati, i boschi completamente rovesciati… Qui non c’è un’emergenza e basta. Qui è in ballo il futuro. Viviamo di turismo, non possiamo permetterci di fermarci» si sfoga il sindaco di Rocca Pietore Andrea De Bernardinis. «Gli esperti della Protezione civile mi hanno detto che è stato un uragano e che qui era l’epicentro». «Siamo quelli messi peggio di tutti» concorda Davide Sorarù, 31 anni, cuoco che in questi giorni distribuisce pasti caldi ai soccorritori, nella scuola elementare del paese. «Arrivano ogni giorni pacchi di cibo da privati, da negozi, da comuni lontani. Mi colpisce la solidarietà della gente comune» dice mentre versa caffè e tè. La pausa dei soccorritori è breve. Pochi minuti. Quando escono dalla scuola guardano tutti in alto, verso le nuvole. Oggi sarà un’altra giornata di allerta meteo.

CORRIERE.IT

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