Gli Usa sempre più divisi verso le elezioni di midterm
Martedì 6 novembre i cittadini degli Stati Uniti saranno chiamati alle urne per rinnovare i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti, 35 dei 100 seggi del Senato e ben 39 governatori di Stati federali. Il voto, come di consueto, cade a metà del mandato presidenziale iniziato con le elezioni del 2016, ed è dunque definito midterm. Sarà il primo midterm di Donald Trump, da molti commentatori paragonato a un vero e proprio “referendum” sull’operato di un Presidente non ascrivibile ai normali canoni dell’analisi politologica.
A ben guardare, analizzando le dinamiche politiche statunitensi degli ultimi anni, si può dire con più esattezza che le elezioni di midterm segneranno una nuova tappa in un percorso avviatosi già nell’era Obama, ma che ha le sue premesse a cavallo tra XX e XXI secolo, caratterizzato dalla polarizzazione sempre più accentuata nell’opinione pubblica americana su numerose questioni fondamentali, che ha agito sia tracciando una netta linea di separazione tra democratici e repubblicani sia frantumando, per linee interne, i partiti tra le loro diverse correnti di pensiero. E Trump, di questo fenomeno, è più un prodotto che una causa scatenante.
Le faglie degli Usa che corrono verso il midterm
Come ha scritto Manlio Graziano ne L’isola al centro del mondo, “Donald Trump è stato definito il Presidente più divisivo. Ma, anche in questo caso, il magnate della Fifth Avenue non fa che rappresentare l’ultimo stadio di una tendenza ormai regolare: Ronald Reagan fu considerato a sua volta “il Presidente più divisivo della storia dei sondaggi” prima di essere surclassato da Bill Clinton; e ogni Presidente venuto dopo Clinton è stato il più divisivo della storia dei sondaggi”.
Le divisioni sono ben radicate nella società americana, e più la fisionomia tradizionale del Paese si erode, più tali divisioni si acutizzano. E questo è stato ben colto da Mugambi Jounet nel suo Exceptional America: “In nessun altro Paese occidentale la gente è così divisa su questioni fondamentali quali il ruolo del governo, l’accesso all’assistenza sanitaria, le disparità di ricchezza, la regolamentazione finanziaria, i cambiamenti climatici, la scienza, l’etichetta sessuale, i diritti riproduttivi, la verità letterale della Bibbia, la guerra e i diritti umani”.
Tutte, o quasi, queste faglie si ripropongono nelle centinaia di sfide locali che caratterizzeranno il voto di midterm, che a causa del suo radicamento fortemente territorializzato appare una cartina di tornasole potenzialmente migliore per misurare il grado di polarizzazione sociale degli Usa rispetto al voto presidenziale del 2016, che ha visto il compattamento finale dell’elettorato repubblicano e democratico dietro i rispettivi candidati di punta.
L’assalto democratico alla maggioranza repubblicana
Le elezioni del 2016 avevano visto i repubblicani conquistare, oltre alla Casa Bianca, anche la maggioranza al Congresso. Il voto di midterm vede i democratici dare l’assalto al fortino del Grand Old Party: l’elevato numero di seggi da difendere al Senato rispetto alle controparti repubblicane rende però più plausibile, per i democratici, conquistare la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti.
L’obiettivo, in altre parole, è rendere Trump un lame duck (“anatra zoppa”) privandolo di una stampella legislativa al Congresso puntando a conquistare quei seggi in cui più dei risultati economici incontestabili (gli Usa di Trump sperimentano una crescita record e una disoccupazione ai minimi da decenni) i votanti potrebbero punire la contraddizione tra la piattaforma elettorale di Trump nel 2016 e i risultati del primo biennio di amministrazione: nel mirino, dunque, rientrano le ex roccaforti operaie del Midwest e le aree rurali della California, che diedero i natali a Reagan e Nixon.
I sondaggi danno per fattibile l’espugnazione democratica della Camera, per la quale è necessaria la conquista di 23 seggi repubblicani. L’elevato peso specifico delle elezioni ha dirottato ingenti quantità di fondi sul voto di midterm, rendendolo di gran lunga il più costoso di sempre. Come riporta la Cnbc, i democratici coprono una parte preponderante dei 5,2 miliardi di dollari che sono preventivati come spesa finale per la campagna elettorale.
Inoltre, tutti i dieci distretti congressuali che hanno attratto il maggior quantitativo di fondi sono attualmente a guida repubblicana e passabili di conquista democratica, sebbene sette su dieci siano ancora considerati in bilico alla vigilia. Spicca tra tutti il sesto distretto della Georgia, che ha attratto da solo oltre 80 milioni di dollari di finanziamenti.
I repubblicani si compattano attorno a Trump
In vista del midterm, repubblicani e democratici hanno optato per strategie diverse volte a superare l’oramai fisiologica frattura tra le loro anime interne. I repubblicani, dall’ala maggiormente libertaria a quella spiccatamente conservatrice, hanno dovuto, volenti o nolenti, compattarsi sul Presidente. Obiettivo di Trump è fare sì che nell’economia del voto i temi nazionali abbiano la meglio sulle problematiche legate ai singoli Stati.
Sandra Yamin Namoos, senior analyst dell’Eurasia Group, ha dichiarato a Formiche che anche i candidati repubblicani più distanti da Trump “non hanno molta scelta. Trump è così popolare nella base del partito che i repubblicani si trovano costretti a schierarsi con lui, anche su dossier, come l’immigrazione, su cui non mancano divergenze. Parecchi candidati dell’elefantino non approvano la risposta di Trump alla carovana di migranti in viaggio verso il confine”, ma preferiscono rimanere in silenzio.
Le diverse anime dei democratici alla prova del midterm
I democratici ancora in crisi di identità dopo la batosta del 2016 non hanno ancora risolto la loro crisi interna. L’ala pragmatica, più centrista e liberale, appare ancora maggioritaria nella parte occidentale del Paese e in California, mentre nella costa orientale è l’ala sinistra del partito ad essere preponderante.
Non è un caso che i Democratic Socialists of America (Dsa) e il mondo culturale orbitante attorno alla rivista Jacobin abbiano appoggiato esplicitamente ben 42 candidati democratici al voto di midterm.
Tra questi, scrive Il Fatto Quotidiano, “ci sono democratici con tessera socialista: dalla nuova stella della politica newyorkese, Alezandria Ocasio-Cortez a Rashida Tlaib, un’avvocatessa figlia di operai palestinesi dell’area di Detroit, fino allo sfidante per il seggio di senatore del Maine, Zak Ringelstein. Ma tra i democratici con sostegno socialista ci sono anche candidati che, molto semplicemente, condividono le posizioni dei DSA su tasse, sanità, educazione: per esempio, James Thompson, un veterano di guerra che in Kansas che si batte per diritti e condizioni di vita degli homeless”.
Uniti dall’obiettivo di indebolire l’egemonia politica del trumpismo, i democratici al voto di midterm puntano a muoversi divisi e colpire uniti. Tuttavia, anche in caso di vittoria alla Camera la contraddizione tra le diverse anime dovrà venire necessariamente sanata, se vorranno interpretare il voto del 6 novembre come una tappa d’avvicinamento al grande obiettivo delle presidenziali del 2020.
In ogni caso, il voto di midterm rappresenterà uno scenario ideale per comprendere la direzione verso cui stanno tendendo gli Stati Uniti, grande Paese che fatica molto spesso a mettere l’insieme di storia e valori che unisce la sua società davanti alle grandi contraddizioni che ne dividono la leadership e l’opinione pubblica.
IL GIORNALE