Né reddito né cittadinanza: ecco come (non) funzionerà il bonus a Reggio Calabria
Dopo le grandi infrastrutture, la prossima battaglia persa dei grillini contro gli alleati-nemici leghisti è quella sul reddito di cittadinanza. Un esempio basta a spiegare come la misura più elettoralista del programma a cinque stelle rischi di avere un effetto boomerang sul consenso M5S a favore della destra salviniana.
Qualche giorno fa una madre di famiglia della comunità rom si presenta al Cpi (centro per l’impiego) di Reggio Calabria per informazioni sul sussidio che dovrebbe partire dall’aprile 2019. La donna percepisce al momento un Rei (reddito di inclusione) che verrebbe incrementato fino ai 780 euro del Rdc. Come il Rdc, il Rei (534 euro al massimo dal primo giugno) è già vincolato alla ricerca di un lavoro e decade alla terza offerta rifiutata.
Con una battuta il funzionario replica che per le modalità esatte del Rdc bisogna chiedere a Luigi Di Maio, poi fa il riassunto di quello che ognuno ha letto sui giornali. La donna sembra soddisfatta. Non volendo mostrare meno sense of humour del funzionario, conclude: «Dottore, mandatemi i soldi ma non mi chiamate mai per offrirmi un lavoro».
I leghisti in cerca di consensi al Sud avranno vita facile a strumentalizzare il Rdc come regalia parassitaria a zingari e immigrati. Del resto, immaginare che il Cpi di Reggio possa dare tre possibilità di impiego ai suoi oltre 45 mila iscritti, che quasi raddoppiano se si parla di città metropolitana con i Cpi di Gioia Tauro e di Locri, più otto sedi decentrate, è un puro atto di fede.
«Il lavoro non me lo posso inventare», dice un altro impiegato. «I miei colleghi veneti si lamentavano che gli allievi dei loro istituti tecnici all’ultimo anno ricevono cinque proposte di tirocinio di cui quattro vanno perse. Magari avessimo qui una proposta di tirocinio per ogni cinque studenti».
I dipendenti del Cpi dovrebbero anche controllare che chi percepisce il reddito di cittadinanza passi due ore al giorno a cercarsi un lavoro e segnalare ogni inadempienza all’Inps, che eroga il sussidio, e agli uffici giudiziari locali, già sottodimensionati e puntellati da centinaia di tirocinanti, veri precari di Stato di lungo corso per 500 euro al mese senza contributi e tfr, impiegati a centinaia negli uffici giudiziari della Calabria.
È difficile pensare che in una Procura sovraccarica come quella di Reggio siano ansiosi di dare la caccia anche ai furbetti del sussidio ai quali Di Maio ha minacciato sei anni di carcere dimenticando l’oceano di lavoro nero sul quale il Sud tenta di galleggiare.
A chi non vuole essere disturbato con improbabili offerte di impiego si aggiungono gli immigrati di Riace e di San Ferdinando, una disoccupazione fra le più alte dell’Ue, un tessuto economico messo in ginocchio dai sequestri giudiziari verso le imprese della ’ndrangheta, sacrosanti ma rimpiazzati dal nulla produttivo. Insomma, ci sono le premesse perché Reggio, amministrata dal Pd e al voto nel 2019, finisca in braccio alla reazione come quasi cinquant’anni fa, ai tempi dei Boia chi molla, con un effetto a catena per la Calabria guidata dal democrat Mario Oliverio, anch’egli in scadenza di legislatura l’anno prossimo.
PESCE D’APRILE
I dipendenti dei Cpi della città metropolitana sono 145 (400 in Calabria, 1737 in Sicilia, ottomila in Italia). Con 48 mila iscritti solamente a Reggio città fanno l’impossibile in un’area metropolitana di 551 mila abitanti con un tasso di occupati del 37 per cento contro il 59 per cento della media nazionale.
Sessanta di loro hanno alle spalle dieci anni di precariato pagato con fondi Ue. Il loro stipendio era inferiore al Rdc (720 euro al mese per 18 ore a settimana cioè 10 euro l’ora). Sono tutti specialisti, psicologi, orientatori, consulenti d’impresa, e sono appena stati stabilizzati dalla Regione, che ha assunto il coordinamento dei Cpi calabresi, come è accaduto in tutta Italia, Lombardia esclusa. Fanno di tutto, dal counseling alla formazione, e si confrontano con la concorrenza delle agenzie private accreditate dalla Regione, quelle che possono spendere, o dicono di potere spendere, il patrimonio di relazioni, conoscenze, amicizie che rimane la via maestra per trovare un lavoro.
Negli uffici del Cpi di Reggio l’idea di partire con il Rdc la prossima primavera è considerata in linea con la tradizione del primo aprile: uno scherzo. Qualcosa si farà, forse la pensione di cittadinanza che è un adeguamento di posizioni Inps relativamente semplice. Ma sui disoccupati le indicazioni del governo centrale sono ancora vaghe. Qui, come altrove in Italia, ci sono difficoltà fin dai sistemi informatici che già nel bando di assunzioni del 1987 dovevano essere unificati a livello nazionale e, trent’anni dopo, continuano a non dialogare. A Reggio c’è lo stesso software dell’Umbria e dell’Emilia Romagna ma per avere tutte le informazioni sulla posizione di un iscritto a volte è necessario aprire quattro sistemi, dal più vecchio al più nuovo messo a disposizione dall’Anpal, l’agenzia nazionale per il lavoro. Spesso nemmeno questo garantisce di identificare tutte le eventuali esperienze lavorative sul territorio nazionale.
Un altro tema sono i sussidi precedenti, dalla Naspi creata dal governo Renzi nel 2015, all’Asdi, al Sia e infine allo stesso Rei, il reddito di inclusione che qualche giorno fa la Caritas ha chiesto all’esecutivo di non eliminare sottolineando l’aumento dei poveri assoluti da 4,7 milioni di persone nel 2016 a 5,06 milioni nel 2017.
L’idea è di fare confluire tutte queste forme di erogazione nel Rdc. Anche se non è chiaro quanti potranno essere i destinatari: forse 5, forse oltre 6 milioni di residenti in Italia da oltre cinque anni, cittadini e non. La spesa a regime dovrebbe essere di 9 miliardi di euro, incluso l’investimento di 1-1,5 miliardi di euro nei Cpi.
Oltre all’agognato sistema informatico unico, gli arredi dei centri in versione gialloverde dovranno essere identici in tutto il territorio nazionale, analogamente a quanto accade con le banche e gli uffici postali.
LA ‘NDRANGHETA NON DA’ PIU’ LAVORO
A Reggio non sarà facile. In questa città spesso gli edifici hanno storie complicate e il Cpi non fa eccezione.
La sede del centro è nella zona sud della città, a pochi passi dallo stadio, e ci si arriva per abitudine senza dovere guardare i cartelli arrugginiti e scrostati seminati per il quartiere Sbarre. La palazzina gialla a due piani è controllata da un immobiliare milanese (Entheos) in mano alla famiglia reggina Remo-Nucera. Entheos ha dato lo sfratto esecutivo al Cpi per morosità del Comune, dichiarato in predissesto finanziario ai tempi dello scioglimento per infiltrazioni mafiose e alle prese un piano di rientro dal debito durissimo.
Fino a marzo di quest’anno nella palazzina gialla di Sbarre non si riceveva per appuntamento. Nelle stradine intorno al Cpi la gente dormiva in macchina per arrivare prima all’apertura. Si andava all’assalto. Al confronto, adesso sembra una clinica svizzera. Resta, come in clinica, il senso di una malattia che, a Reggio e al sud, è considerata inevitabile.
La mancanza di lavoro colpisce in modo sistematico i giovani (63 per cento di disoccupati fra i 15 e i 24 anni con punte del 75 per cento fra le donne), quelli che si chiamano Neet con un acronimo inglese (not engaged in education, employment or training). Ma in forte emersione è la fascia di nuova povertà che investe i cinquantenni rimasti senza impiego durante i sequestri giudiziari, spesso seguiti da fallimenti, di gruppi imprenditoriali legati ai clan come quello di Dominique Suraci, imprenditore della grande distribuzione condannato in giugno a dodici anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
La casistica umana è sterminata. Per raccontarla ci vuole un doppio anonimato, quello del disoccupato iscritto e quello del dipendente che lo racconta e che dovrebbe chiedere l’autorizzazione scritta del superiore per parlare con la stampa.
Un funzionario racconta la sua esperienza con i casi più difficili, che sono distribuiti tra la fascia giovanile, dove ancora sopravvivono forme di sostegno dei familiari, e quella dei vecchi baby-boomer nati negli anni Sessanta, la più disperata.
In controtendenza con la tradizione solidaristica delle famiglie del Sud, c’è la vicenda recente di un ragazzo di 22 anni, sposato, due figlie, con il Rei e qualche lavoretto in nero in un autolavaggio. Morto il padre, la madre che non andava d’accordo con la nuora li ha cacciati di casa e non sanno dove andare.
Un’altra iscritta, una donna di 45 anni, viene da vent’anni di violenza domestica che l’hanno lasciata invalida. Per lei potrebbe valere il collocamento mirato che le aziende sopra i quindici addetti devono riservare ai portatori di handicap. Il problema è che la maggioranza delle imprese del territorio hanno un solo addetto. Rare quelle sopra i quindici, rarissime sopra i cinquanta. Fra le grandi ci sarebbe l’Hitachi-Ansaldo, impresa di punta che vende treni in mezzo mondo. Ma Hitachi non è soggetta a collocamento mirato perché fa attività di cantiere, dunque a rischio, e in ogni caso, quando ha bisogno di personale, si rivolge a un’agenzia di lavoro interinale con sede a Palermo.
«Piccole o grandi», dice l’impiegato del Cpi, «le aziende non hanno fiducia nel nostro sistema e preferiscono assumere a chiamata diretta, attraverso le relazioni, le conoscenze. Noi facciamo cinque colloqui al giorno e siamo in dieci. Personalmente nell’ultimo anno ho concluso due cocopro e un’assunzione a tempo indeterminato di un ingegnere sotto i quarant’anni che era stato licenziato da un’impresa edile cittadina in crisi. Mi ha detto ridendo: spero di non rivederla più».
ACCOGLIENZA CONTRO CAPORALATO
Come accadeva negli anni Settanta, quando i libri gratis alle scuole medie li ottenevano regolarmente i figli dei professionisti più in vista della città, anche con i sussidi non mancano né mancheranno gli abusi dettati dalla scarsa attitudine italiana alla contribuzione fiscale.
C’è la figlia trentenne e laureata del tributarista con due figli e bella casa in comodato d’uso dalla zia che incamera il Rei. E c’è il quasi sessantenne ex informatore scientifico con tre figli minorenni e la moglie costretta a fare la maestra in Veneto che vive con la pensione del fratello bancario e non ha diritto al Rei perché, oltre alla prima casa, ha un pezzo di terra con quattro piante di bergamotto fuori città.
Nelle liste di chi percepisce il Rei sono molto aumentati anche gli extracomunitari con permesso di soggiorno. Sull’accoglienza agli immigrati la Calabria si trova in prima linea e ha reagito con esempi virtuosi come quello di Riace, animato dal sindaco Mimmo Lucano, o indegni come la baraccopoli di San Ferdinando nell’area tirrenica. Chi ha lavorato nel Cpi di Locri o nella sua sede distaccata di Caulonia racconta dei corsi di orientamento fatti per la rete Sprar a Riace. Sono state esperienze meritorie ma spesso sporadiche perché collegate alle disponibilità di fondi europei. Esauriti i fondi, finiva anche la formazione salvo ripartire dal punto iniziale una volta che il denaro tornava disponibile. È quasi superfluo descrivere la complessità di un impegno che parte dalla mediazione linguistica e culturale, con l’impiego di interpreti improvvisati e magari laureati nel loro paese. Il passaggio successivo è la costruzione di un curriculum da presentare a un possibile datore di lavoro o, nei casi più qualificati, di un bilancio di competenze tecnico-specialistiche.
«Imparare come ci si propone sul mercato del lavoro», racconta un’addetta del Cpi, «è un lavoro in se stesso, e non soltanto per rifugiati che arrivano dall’Africa o dall’Asia».
L’importanza dell’esempio Riace è messa in risalto per contrasto da quello che è successo nella piana di Gioia Tauro, una delle principali zone agricole della Calabria dominata dal caporalato, oggi come negli anni Cinquanta dello scorso secolo. Lo scandalo della baraccopoli di San Ferdinando ha portato l’anno scorso alla firma di un protocollo contro il caporalato in prefettura. Non ci si può illudere di battere il crimine organizzato a colpi di firme. Ma, se è per questo, non sarà il reddito di cittadinanza a risolvere l’emergenza lavoro al Sud. Al Cpi di Reggio, almeno, non ci crede nessuno.
L’ESPRESSO