Conte e quell’incontro segreto in hotel. “Così mi offrirono di fare il premier”

di BRUNO VESPA

Roma, 7 novembre 2018 – Esce oggi il libro di Bruno Vespa ‘Rivoluzione – Uomini e retroscena della Terza Repubblica’ (Mondadori, Rai Libri, 336 pagine, 20 euro). Ne pubblichiamo un estratto.

«Quando sembrava che nessun accordo fosse possibile», mi racconta Salvini, «andai da Berlusconi e gli dissi che eravamo pronti ad andare al voto. Le elezioni non ci hanno mai spaventato, buone o cattive che fossero le previsioni. Fu allora che lui mi disse di provare a mettere in piedi una maggioranza con i 5 Stelle» (…).

L’INCONTRO SEGRETO IN UN HOTEL MILANESE
Per Lega e 5 Stelle fu allora possibile mettersi alla ricerca di un premier. Quando Di Maio propose a Salvini di fare un nome tra i parlamentari eletti nel M5S, questi portò il «facciario» per visionare con Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli e Gian Marco Centinaio uno per uno le donne e gli uomini pentastellati e individuare chi avrebbe potuto avere il profilo adatto. Arrivati alla lettera C, Centinaio esclamò: «Eccolo, Emilio Carelli. È l’uomo ideale. Non è un giustizialista, cosa che ci aiuta anche con i nostri alleati di Forza Italia, ed è un volto televisivo noto anche a mia mamma. Perché no?». Di Maio informò immediatamente Carelli (…), ma un paio d’ore dopo il capo politico del M5S lo richiamò per dirgli che la cosa non era andata a buon fine. Aveva parlato con Grillo, con Casaleggio, con Fico, ed erano giunti alla conclusione che il nome di Carelli avrebbe spaccato il Movimento. (…)

A Giorgetti fu allora consegnata una terna di nomi, due uomini e una donna. (…) L’unico sul quale si trovò l’accordo senza difficoltà fu Giuseppe Conte. Pugliese di Volturara Appula (Foggia), 54 anni, separato con un figlio, professore ordinario di diritto privato a Firenze e collaboratore dell’importante studio legale romano di Guido Alpa, faceva parte del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa su designazione del Movimento 5 Stelle che, alla vigilia delle elezioni, lo aveva indicato come candidato ministro della Pubblica amministrazione. Ma (…) la Lega aveva un proprio, illustre candidato di riserva.

Sponsor di Conte fu Alfonso Bonafede (dal 2013 deputato del M5S, poi, dal 1° giugno 2018, ministro della Giustizia nel governo gialloverde). Si era laureato nel 2002 all’università di Firenze con il professor Giorgio Collura, ordinario di diritto privato, con una tesi sul «danno esistenziale», frutto – si dice – dell’innamoramento per l’ultimo «Discorso all’umanità» che Beppe Grillo aveva pronunciato in una televisione privata il 31 dicembre 2001. (…) Bonafede voleva diventare assistente volontario di Conte, molto amato dai giovani. «Quando Bonafede mi propose l’incarico» mi racconta in autunno il presidente del Consiglio nel suo studio di palazzo Chigi «gli dissi che non avevo votato per il Movimento alle elezioni del 2013». Per chi aveva votato?, gli chiedo. «Di solito a sinistra, una volta per i radicali. Non sono mai stato militante di una forza politica. Anche con i 5 Stelle, pur dopo la nomina al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, non ho mai avuto un rapporto organico, in parte per tutelare la mia autonomia e indipendenza di giudizio. Bonafede e Di Maio, però, sin dall’inizio mi dissero che il fatto che non li avessi votati non era importante e che non avrebbero interferito sulla mia autonomia. Anche per questo offrii la mia disponibilità».

Successivamente, Bonafede invitò il professore a partecipare a una giornata sulla giustizia in cui era relatore e, sullo stesso tema, Conte ebbe scambi di idee con lui e con Di Maio a ridosso delle elezioni. «È nata così la mia designazione a candidato ministro della Pubblica amministrazione in un eventuale governo con i 5 Stelle. Una disponibilità che allora si presentò come meramente ‘virtuale’, perché era improbabile che si sarebbe formato un governo monocolore, e quindi ogni candidatura era incerta. Poi, un giorno, Di Maio mi chiamò e disse che voleva incontrarmi con Salvini per un incarico istituzionale. Allora intuii che volevano chiedermi un impegno maggiore». L’incontro, ovviamente, doveva svolgersi nel più assoluto riserbo. Fu prenotata una stanza nell’hotel NH di largo Augusto, a Milano, con un nome diverso da quello di Conte e, quando il professore ne ebbe preso possesso, il 13 maggio arrivarono Di Maio, Salvini, Giorgetti e Spadafora. «Non mi fecero domande specifiche» ricorda il presidente del Consiglio. «Fu una conversazione ad ampio respiro nell’ipotesi che potessi essere indicato come candidato premier. Parlammo naturalmente del contratto che si stava formando e ne approfittai per offrire alcuni arricchimenti e modifiche. Ci confrontammo sull’indirizzo politico generale, sul reddito di cittadinanza e sulla flat tax». Dissi che sarebbe stato preferibile che un governo politico avesse un premier politico. Nel caso la scelta fosse caduta su di me, dichiarai subito che avrei potuto accettare solo a condizione che sia Di Maio sia Salvini avessero fatto parte del governo con incarichi significativi. Mi fu detto per correttezza che avrebbero dovuto incontrare anche un altro candidato indicato dalla Lega, e io stesso mi offrii di mettere a disposizione la mia stanza per l’incontro, dopo essermi accertato che nella hall vi fosse uno schermo in cui trasmettevano la partita della Roma».

LA PARENTESI SAPELLI (CHE CAPÌ SUBITO TUTTO)

Il candidato leghista era Giulio Sapelli, torinese, 71 anni, economista e accademico illustre, con un curriculum di forte connotazione internazionale. (…) «Non si poté nemmeno iniziare una discussione politica, perché Di Maio mi disse: ci illustri il suo modello di sviluppo. Gli risposi: legga i miei libri. Salvini e Giorgetti intervennero: sai, Luigi, il professore ha un carattere un po’ difficile… (…) Dissi: la Costituzione prevede che voi indichiate me come presidente del Consiglio e io scelgo i ministri. Feci il nome di Siniscalco, e Di Maio disse: lui no, è stato con Berlusconi. Obiettai che una persona vale per quello che è, non per quello che è stata. Di Maio propose che metà dei ministri li avrei scelti io e metà loro. Risposi che per gli Interni e anche un po’ sul resto avrebbero potuto scegliere loro, ma su Economia ed Esteri non avrei mollato. Il clima era ormai deteriorato. Mi dispiaceva per Matteo e Giancarlo, che avevano veramente fatto di tutto ed erano stati molto gentili nei miei confronti. Me ne andai a casa con l’autista di Giorgetti. Avevo respirato un’aria esoterica, l’unica discussione politica la feci con gli amici della Lega. Gli altri avevano accettato di vedermi soltanto per l’insistenza dei leghisti

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