La clessidra di Minniti
La clessidra di Marco Minniti non ha ancora consumato l’ultimo granello. La sabbia continua a scorrere in attesa di una decisione che non arriva ancora. Oggi doveva essere il giorno del grande annuncio. E invece l’ex ministro dell’Interno ha fatto sapere ai suoi fedelissimi che il travaglio della decisione non è ancora concluso. Il giorno buono dovrebbe essere domani, comunque prima di venerdì, giorno in cui sarà a Firenze alla presentazione del suo libro con Matteo Renzi. Chissà.
È un travaglio vero, non una trovata comunicativa per alimentare un po’ di suspense. Politico e personale, anche se, per molti anche dei suoi, quasi incomprensibile, perché “a un certo punto o è sì o è no”. Amici e compagni di una vita che ci hanno parlato in queste ore raccontano di pulsioni contrastanti. Più scettico nei giorni scorsi, orientato al gran rifiuto, più possibilista oggi. Stefano Esposito, che ieri era con lui alla presentazione del libro a Torino, dice: “Al netto del mio convinto sostegno, è evidente che la sua candidatura ci metterebbe nelle condizioni di fare una discussione seria sulla linea, tra opzioni contrapposte, e sulle ragioni della travolgente sconfitta. Detto questo, se andiamo avanti così, faremo un congresso con posti in piedi, non perché ci sono le folle, ma perché non troveremo più neanche le sedie su cui sederci”.
È uno spettacolo surreale, questa sorta di “minnitometro” che va in scena in Transatlantico, specchio di un partito avvitato in una spirale politicista e in una discussione “nascosta”, con finora un solo candidato ufficiale tra i big in campo. E due quasi candidati, col paradosso che il grande decisionista degni anni di governo al Viminale non si decide, mentre Zingaretti, che ha la fama di “Sor tentenna”, è l’unico che si capisce cosa voglia fare: si è candidato, gira l’Italia come una trottola, è carico come una dinamo.
“Minniti sì”, “Minniti no”, “si candida o non si candida”, “pare che si sta convincendo”. È questo l’argomento dei capannelli: “L’impressione – dice Walter Verini – è che siamo avvolti in un confronto che riguarda solo il ceto politico qui dentro, mentre fuori c’è una immensa domanda, vedi la piazza di Torino. Una volta si diceva ‘extra ecclesiam, nulla salus’, ora invece la salus è tutta extra ecclesiam”. Dentro, i chierici che hanno perso i fedeli e forse anche la fede, si muovono senza la percezione della straordinarietà del momento, in un congresso che, già sul nascere, pare diventato un gioco di società per pochi intimi. Poco distante, Deborah Serracchiani affida la sua fotografia a un gruppo di parlamentari: “La situazione è questa, si litiga per l’eredità, ma col piccolo particolare che manca il de cuius“. Perché, politicamente parlando ovviamente, Renzi è vivo e lotta insieme a loro. È questo il punto, all’interno di una discussione sul suo ruolo evitata e rimossa in forma pubblica. Diciamo le cose come stanno: quando Marco Minniti ha preso in considerazione l’idea di candidarsi pensava che attorno alla sua figura, e alla sua storia, si potesse realizzare una operazione politica. E cioè: allargare il campo e andare oltre la logica della ridotta del renzismo, portando quel mondo sconfitto oltre il “come eravamo”. Tradotto, in modo un po’ tranchant: pensava che dal mondo renziano arrivasse una delega piena e che, per dirne una, Martina, a quel punto, corresse con lui, o che, per dirne un’altra, Gentiloni a quel punto mostrasse equidistanza e che, magari, qualche ex ds sentisse il richiamo della foresta.
Ecco, nessuna di queste tre cose è avvenuta. Anzi, è avvenuto l’opposto. Il campo si è stretto. A Salsomaggiore, di fatto, Renzi ha sancito il “liberi tutti”, lasciando libero sfogo a quanti, tra i suoi, si sentono ormai nel Pd ospiti in casa d’altri e lo spingono a fare un altro partito, in nome del “noi non chiederemo mai scusa”. E nulla ha fatto per addolcire la diffidenza di un pezzo del suo mondo su Minniti, vissuto come troppo autonomo “perché non è uno dei nostri”. E ancora: nei giorni scorsi Maurizio Martina ha spiegato proprio a Minniti che, per quanto lo stimi, non ha alcuna intenzione di rinunciare a correre, anche se l’ex ministro sarà in campo. E ancora: il mite Gentiloni si è schierato, definitivamente, a favore di Zingaretti. Politicamente parlando, dunque, il campo si è stretto, né l’entusiasmo di un nuovo inizio ha preso il posto del reducismo di ciò che è stato. Questo, per rimanere nei termini della politica alta. Poi c’è la bassa cucina, che sempre della politica fa parte, ovvero posti, liste e organigrammi. Perché è chiaro che il sostegno, anche se poco convinto, non è costo zero. E i renziani hanno chiesto posti e chiave, per lasciare pochi margini di autonomia al candidato: Lotti all’organizzazione delle liste, Teresa Bellanova o Ettore Rosato come coordinatori della mozione, come forme di garanzia e di tutela del potere reale nel partito.
Se così stanno le cose, deve aver pensato Minniti, il punto fondamentale è il dopo: come si gestisce un partito in cui il congresso non lo vince nessuno e va fatto un accordo il minuto dopo, accordo che inevitabilmente passa per Renzi che sta giocando su due candidature autorizzando i suoi anche a sostenere Martina? Un quesito che spinge Minniti a dire “arrivederci a tutti”. Però c’è l’altro corno del problema. Senza la sua candidatura, a quel punto vince Zingaretti e, il minuto dopo, il Pd perde un pezzo, perché quella sala di Salsomaggiore non starà mai in un partito guidato da Zingaretti, sprezzantemente etichettato come “la riedizione dei Ds”. E il tema dell’unità del partito è un tema sensibile per uno cresciuto nel Pci. E la sabbia continua a scorrere senza che la decisione sia stata presa.
This entry was posted on giovedì, Novembre 15th, 2018 at 08:03 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.