L’allarme degli imprenditori: l’Italia è ferma
di Vittorio Malagutti e Gloria Riva
Crescere. E cresceremo. Con volitiva determinazione, Luigi Di Maio ripete da mesi il mantra scacciapensieri destinato, almeno nelle intenzioni, a rassicurare la nazione tutta sul futuro prossimo dell’economia italiana. Lo ha fatto anche nell’intervista pubblicata lunedì 5 novembre dal Financial Times, affermando con sprezzo del pericolo (o del ridicolo?) che l’Europa intera finirà per adottare la ricetta italiana per rilanciare la crescita. E cioè tagli alle tasse e aumento della spesa pubblica.
Il vicepremier vola alto e pensa positivo (cit.), ma le sue parole, calate nella realtà quotidiana di migliaia di aziende grandi e piccole del Nord e del Centro Italia, suonano come la chiamata alle armi di un esercito depresso e preoccupato. «Da settembre, al ritorno dalle ferie, il clima è cambiato», afferma Paolo Agnelli, titolare dell’omonima azienda di Bergamo, leader in Italia nella lavorazione dell’alluminio. «I telefoni hanno cominciato a squillare con meno frequenza e si sono ridotti anche i contatti con gli agenti. Per noi», conclude Agnelli, «è stato il primo segnale di un’inversione di tendenza, un’indicazione chiara che la fase espansiva ormai è alle spalle». Il 30 ottobre è stata l’Istat a certificare la frenata, fissando a zero la variazione del Pil (Prodotto interno lordo) tra luglio e settembre. Lo stop arriva dopo 16 trimestri di crescita ininterrotta e coincide con le prime turbolente settimane del governo tra Lega e Cinque Stelle, segnate dal confronto con l’Unione europea e con i mercati sulla prossima manovra economica.
È troppo presto per affermare che i provvedimenti dell’esecutivo gialloverde abbiano già avuto effetti concreti sull’andamento delle imprese. Un fattore chiave che almeno in parte spiega la frenata va piuttosto ricercato nelle aspettative sull’andamento a breve e a medio termine dell’economia. E qui lo scetticismo sull’efficacia delle prossime mosse del governo appare molto diffuso.
Nella nota di aggiornamento al Def, cioè il Documento di economia e finanza per il prossimo anno, il governo afferma di voler raggiungere nel 2019 una crescita del Pil pari all’1,5 per cento, contro lo 0,9 per cento stimato inizialmente. La quasi totalità degli analisti ritiene però del tutto improbabile che gli obiettivi dichiarati vengano effettivamente centrati. A maggior ragione dopo la brusca frenata del terzo trimestre 2018, che potrebbe essere il primo episodio di una fase di rallentamento destinata a prolungarsi quantomeno nel prossimo inverno e forse anche oltre. Di conseguenza gli imprenditori diventano più prudenti e in attesa di tempi migliori rinviano gli investimenti programmati.
Era stata proprio la corsa all’acquisto di nuovi macchinari a trainare l’economia italiana a partire almeno dalla scorsa primavera, ma già verso fine estate sono stati registrati i primi segnali di un’inversione di tendenza. Non per niente già a ottobre l’Istat segnalava un calo dell’indice che misura il clima di fiducia delle aziende, sceso il mese scorso da 103,6 a 102,6, la terza flessione consecutiva.
«Nel budget 2019 abbiamo previsto un’ulteriore crescita, ma si percepisce chiaramente un rallentamento che stiamo cercando di contrastare allargando ulteriormente il parco clienti, per esempio spingendoci verso l’Asia», racconta Jody Brugola, a capo della brianzola Officine Egidio Brugola, produttore di viti per montare i motori delle automobili. Come Brugola, anche migliaia di altri imprenditori tra il 2016 e il 2017 hanno trovato nuove opportunità di crescita sui mercati esteri, ma all’inizio di quest’anno l’export ha fatto segnare una prima battuta d’arresto. Il made in Italy ne ha subìto le conseguenze, anche perché si è ridotto il flusso di merci nostrane diretto verso Paesi in via di sviluppo, come la Turchia, che più risentono della turbolenza dei mercati internazionali. Qui davvero c’entra poco la politica economica del governo di Roma, perché a innescare la nuova fase sono stati principalmente la guerra dei dazi scatenata da Donald Trump contro la Cina e il rafforzamento del dollaro che ha spostato capitali dalle economie emergenti verso la valuta statunitense. Anche dalle nostre parti, peraltro, c’è chi invoca dazi per porre un freno all’invasione delle merci cinesi. Il bergamasco Agnelli, per esempio, chiede un intervento urgente dell’Unione europea per «difendere le produzioni italiane» dalla concorrenza di Pechino.
Insomma, tira aria di protezionismo e a questo punto appare davvero difficile ipotizzare un ritorno dell’economia mondiale ai ritmi di crescita fatti segnare negli ultimi due anni. Anzi, il Fondo monetario internazionale ha di recente rivisto al ribasso dello 0,2 per cento le sue previsioni sull’aumento del Pil mondiale, che nel 2018 e nel 2019 non dovrebbe superare il 3,7 per cento, mentre l’area euro, secondo il Fmi, dovrebbe fermarsi a quota 1,9 per cento l’anno prossimo, contro il 2 per cento atteso per il 2018 e il 2,4 per cento fatto segnare nel 2017.
Lo scenario globale sembra quindi lasciare poco spazio all’ottimismo, ma il governo di Roma è convinto che l’Italia possa andare controcorrente. In altre parole, dopo un decennio in cui la crescita dell’Italia ha sempre marciato a un’andatura ben più modesta rispetto a quella degli altri Paesi europei che adottano la moneta unica, d’ora in poi la nostra economia dovrebbe essere in grado di ridurre il distacco. Come? Con un forte aumento degli investimenti pubblici e un rilancio dei consumi anche attraverso gli sgravi fiscali, ripete da mesi il ministro dell’Economia, Giovanni Tria.
Al momento, però, non è chiaro il dettaglio delle misure che verranno adottate per rilanciare la crescita e tra gli imprenditori è diffuso lo scetticismo sugli effetti concreti dei provvedimenti dell’esecutivo. «Nella manovra appena varata mancano iniziative a sostegno dell’impresa», dice Roberto Crippa, a capo della lombarda Technoprobe, che produce componenti per gli smartphone. «Non si capisce quali siano le reali intenzioni del governo», attacca Francesco Casoli, imprenditore alla guida del gruppo Elica di Fabriano che produce cappe da cucina. «E tutta questa incertezza», aggiunge, «si proietta negativamente sull’economia delle aziende, anche di quelle strutturate come la nostra».
Sul futuro prossimo si naviga a vista, quindi, e il precedente del cosiddetto decreto dignità, varato a luglio, non fa ben sperare. L’unico provvedimento che ha fin qui realmente inciso sulle dinamiche dell’economia era stato pensato con l’obiettivo di arginare i contratti precari nella speranza di stabilizzarli. È andata diversamente: chi era in scadenza in molti casi è stato sostituito da altri lavoratori con la stessa formula contrattuale, mentre l’occupazione a tempo indeterminato è calata. La conferma arriva dall’Istat che a settembre ha registrato una diminuzione dell’1,2 per cento degli occupati permanenti: 184 mila posti in meno rispetto a un anno prima.
«Il decreto dignità voluto da Luigi Di Maio è stato un vero e proprio boomerang, che ha bloccato le assunzioni», sintetizza Brugola, dell’omonima azienda brianzola. E l’effetto boomerang, o Tafazzi, se preferite, è evidente anche sui mercati finanziari. A innescare la spirale ribassista sui titoli di Stato italiani sono stati gli annunci dell’esecutivo sui conti pubblici, conditi da retromarce e correzioni di rotta. Nel Def è stato messo nero su bianco un deficit pari al 2,4 per cento del Pil 2019, contro lo 0,8 per cento (poi corretto all’1,2 per cento per effetto del rallentamento dell’economia) concordato con Bruxelles dal precedente governo. La sfiducia degli investitori ha quindi prodotto vendite a raffica di Btp e di conseguenza un aumento del loro rendimento. Come dire che lo Stato spenderà di più per finanziarsi con le prossime emissioni di titoli, ma ci sono conseguenze negative anche per banche e imprese. Il costo del denaro aumenta per le prime, costrette a collocare obbligazioni con rendimenti più elevati per battere la concorrenza dei bond pubblici. E questi oneri supplementari per gli istituti bancari vengono infine scaricati sui creditori che vedono aumentare gli interessi da pagare sui prestiti. L’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia segnala che già in settembre le condizioni di accesso al credito sarebbero “lievemente peggiorate”.
Il calo delle quotazioni dei titoli di Stato, presenti per decine di miliardi tra gli investimenti delle banche, pesa anche sull’attivo di bilancio degli istituti, che vedono peggiorare i propri indici di solidità patrimoniale. Di conseguenza, i banchieri tendono a farsi più prudenti nella concessione di nuovi fidi e nel rinnovo di quelli vecchi.
«Abbiamo sondato gli istituti di credito per capire la loro disponibilità a sostenere i piani di risanamento aziendali nel 2019», spiega Maurizio Ria, partner della società di consulenza Duke&Kay, «e in più casi ci è stata evidenziata la preoccupazione per una possibile ondata recessiva». In altre parole, mentre il governo annuncia una nuova stagione di crescita grazie alle misure varate con la manovra di bilancio, le imprese rischiano di dover fare i conti con una stretta del credito. E quest’ultima è stata causata proprio dagli annunci dell’esecutivo sull’aumento del deficit pubblico. Come dire che per le aziende, strette tra una congiuntura internazionale in forte rallentamento e gli ostacoli in patria, il sentiero che porta alla ripresa appare sempre più ripido. La coppia Di Maio-Tria insiste e va dicendo che saranno gli investimenti pubblici lo stimolo decisivo per rimettere in moto la crescita. Sarebbe un’ottima notizia per le grandi aziende di costruzioni, da tempo in affanno per via di blocchi e ritardi negli appalti.
Due leader del settore come Astaldi e Condotte sono finite di recente in amministrazione controllata, ma è l’intero settore che viaggia in riserva. «Abbiamo 380 cantieri aperti», dice Vincenzo Onorato, presidente del consorzio bolognese Integra che riunisce oltre 300 aziende, «eppure viviamo situazioni di chiusura da parte degli istituti di credito, ma anche criticità di programmazione. Questo accade perché nel settore pubblico fra l’aggiudicazione di una gara d’appalto e l’effettiva partenza dei lavori passano anni».
I disastri delle settimane scorse, causati dalle alluvioni in Veneto e in Sicilia, potrebbero essere l’occasione per lanciare un grande piano di intervento sul territorio con l’obiettivo di arginare il dissesto idrogeologico. Opere più che mai indispensabili che potrebbero trasformarsi in un volano per la ripresa. «Il pericolo è che queste zone vengano abbandonate», dice Claudia Scarzanella, titolare di una segheria nel bellunese, dove a causa del forte vento sono caduti 14 milioni di alberi. Dal governo però non è finora arrivato nessun annuncio in proposito. Solo battute polemiche su un non meglio precisato «ambientalismo da salotto» (copyright Matteo Salvini) che avrebbe contribuito a provocare i disastri. La propaganda innanzitutto.
L’ESPRESSO