Veneto, batterio killer in sala operatoria: inchiesta sulla morte di sei pazienti
Un macchinario, un batterio, sei vittime. Succede in Veneto e si tratta di una sorprendente storia di malasanità. È venuta alla luce lo scorso 2 novembre, quando un anestesista dell’ospedale San Bortolo di Vicenza, Paolo Demo, è stato stroncato dal batterio che la scienza chiama Mycobacterium Chimaera. Il medico era stato infettato due anni prima in sala operatoria, durante un intervento a cuore aperto di sostituzione della valvola cardiaca. Aveva saputo dai colleghi che il «killer» si era annidato nel macchinario per il riscaldamento del sangue, utilizzato dalle sale operatorie di Cardiochirurgia durante le procedure di circolazione extra corporea e prodotto dalla ditta Liva Nova del gruppo Sorin. Demo aveva allora tenuto un diario per documentare l’evolversi dell’infezione, lenta ma letale nel 50% dei casi.
Alla sua morte, il memoriale è stato affidato dalla famiglia all’avvocato di fiducia. Il quale ha presentato un esposto alla Procura di Vicenza. Ora però si scopre che le vittime del batterio killer in Veneto, certificate dall’autopsia e dagli esami microbiologici specifici per microbatteri, sono sei, compreso il medico: quattro a Vicenza, uno a Padova e uno a Treviso. In tutto 18 persone infettate. Sono tutti pazienti operati al cuore e trattati con la stessa strumentazione. Emerge dalle ispezioni disposte dalla Regione nei complessi ospedalieri dotati di Cardiochirurgia, cioè le due Aziende di Padova e Verona, gli ospedali di Treviso, Mestre e Vicenza. La tecnologia sotto accusa viene venduta in tutto il mondo, tant’è che l’allarme era già scattato in altri Paesi nel 2011 e la stessa Liva Nova alla fine del 2015 ne aveva raccomandato la sanificazione, senza tuttavia ritirarla dal mercato.
Lo scorso 20 settembre il ministero della Salute ha allora chiesto a tutte le Regioni di avviare un’analisi retrospettiva per individuare tutti i soggetti infettati da Mycobacterium Chimaera tra il 2010 e il 2018.
Un mese dopo Palazzo Balbi ha istituito un gruppo di lavoro composto da esperti di Malattie infettive, Cardiochirurgia, rischio clinico e Microbiologia per elaborare il primo «Documento di indirizzo per la prevenzione e la gestione delle infezioni da micobatterio Chimaera associate a interventi chirurgici con utilizzo dei dispositivi di riscaldamento/raffreddamento del sangue». Si tratta delle prime linee guida elaborate in Italia per cercare di arginare la circolazione del batterio, che si annida nel serbatoio d’acqua interno al macchinario e, attraverso l’aria, si trasferisce al paziente. Non uccide subito. Come riferiscono gli esperti, il tempo di latenza tra l’esposizione e l’eventuale insorgenza dei sintomi (nel 50% dei casi) varia tra uno e cinque anni. Ecco perché Demo è morto due anni dopo l’intervento. I sintomi sono febbre, sudorazioni notturne e deperimento organico protratti per oltre due settimane e non legati ad altre patologie. Il ministero della Salute ha messo ulteriormente all’erta le Regioni, rivelando che il macchinario è infettato ab origine , cioè durante la sua costruzione in fabbrica, e che è dunque inutile sostituirlo. L’Azienda ospedaliera di Verona ha evitato vittime perché non l’ha mai comprata dalla Sorin ma da un’altra ditta, alla quale si è rivolta anche l’Usl berica a metà 2016, quando ha deciso di dismettere la propria. Invece Padova, Mestre e Treviso la utilizzano lasciandola fuori dalla sala operatoria, lontana dal malato, e collegata con un tubo lungo fino a 5 metri. Oltre i quali il funzionamento non è garantito.
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