Ma non si poteva fare di più?

La cronaca di una bocciatura annunciata, ed esemplare, è, al tempo stesso, la cronaca di un tentativo certo difficile, certo dai margini strettissimi, andato male. Detta in modo un po’ brutale, il capo dello Stato, su tutta questa delicata partita della manovra, ha posto in essere, nelle condizioni date, una sorta di operazione di limitazione del danno: senza mai ricorrere al repertorio di moniti, reprimende e richiami allarmati, e senza mai fare da cassa di risonanza ai moniti, reprimende e richiami allarmati altrui, si chiamino Juncker o Moscovici, ha tenuto un profilo collaborativo col governo, confidando che venisse aperto un negoziato serio con l’Europa. La famosa “mediazione”, auspicata, sobriamente sollecitata come un aiuto perché è importante “tenere i conti in conti in ordine”, ma mai come un rimprovero in nome del “ce lo chiede l’Europa”, vissuta, nell’era sovranista, come un arcigno vincolo esterno che mina la sovranità popolare. Speranza affidata non solo a un’incrollabile fede, ma anche all’azione della cosiddetta ala dialogante del governo, da Moavero e Tria, sensibile alle preoccupazioni “istituzionali”.

È inutile girarci attorno. La storia sta andando nella direzione del danno illimitato: bocciatura annunciata, con lo spread che oggi tocca quota 335 punti base, e la grande fuga degli investitori dai nostri titoli di Stato. Perfino le famiglie, chiamate dai dioscuri del sovranismo ad acquistare l’oro della patria hanno abbandonato i Btp, il che fa facilmente prevedere che i rendimenti sui titoli e lo spread sono destinati ad aumentare. E i “dialoganti” sono spariti o precipitati nella beffa di un ministro dell’Economia che dopo aver promesso una linea del Piave sul deficit, pare Cadorna a Caporetto, che difende chi lo ha sconfitto.

Ecco: la “bestia” non è stata addomesticata, i presunti ragionevoli, nel governo sono al guinzaglio dei due leoni del sovranismo (è prevedibile che comanda chi ha i voti), nell’opinione pubblica la voce di una solida cultura repubblicana ed europeista non solo non è risvegliata, ma è soffocata nelle fanfare dei tweet e del nuovo pensiero dominante, al punto da non essere percepita. Non stiamo parlando dell’invocazione di un contropotere, da insediare al Quirinale. Ma della vitalità del messaggio e del modo stesso con cui si interpreta il ruolo, perché nell’epoca moderna è ineludibile il tema dell’opinione pubblica e l’interesse nazionale si difende anche spiegando cosa sia.

La presidenza della Repubblica sembra essere, essa stessa, parte della crisi. Ma davvero non c’era niente che le massime istituzioni non potessero fare di più? Davvero era inevitabile essere stretti nell’alternativa tra non firmare la manovra e sperare che un’impennata dello spread faccia impaurire il governo e indurlo a miti consigli? Da giorni, raccontano i frequentatori del Colle, l’umore di Sergio Mattarella è plumbeo, non mascherato neanche dai sorrisi di circostanza nel corso della cena al Quirinale con l’Emiro del Qatar. Un vecchio europeista e un uomo delle istituzioni serio come Mattarella non può assistere senza sofferenza allo sgretolamento dell’edificio in cui ha creduto.

Senza alcuna retorica: la situazione è grave. E non può non investire il tema del ruolo che intenderà agire nelle prossime settimane il capo dello Stato adesso che la crisi italiana è arrivata al dunque. Ed è questo l’oggetto di ragionamenti, discussioni, confronti anche tra i collaboratori più stretti. C’è chi sostiene che, di fronte a questo scenario, non si può non cambiare registro rispetto a questi mesi, perché lo impongono il momento e l’opportunità di non essere accusato, un domani, di eccessiva prudenza o pilatismo. E chi, invece, ritiene sbagliato di caricarsi di una responsabilità che, per intero, riguarda il governo e lo renderebbe il capro espiatorio di tutte le tensioni, il “grande Nemico” contro cui scaricare la narrazione perfetta del “noi volevamo fare, questo e quest’altro, ma ce lo hanno impedito i poteri forti, l’Europa e il capo dello Stato”.

È un dilemma estremo che, dopo la bocciatura e il gran falò dei mercati, diventerà ancora più bruciante. Sabino Cassese, sul Foglio di oggi, ha argomentato come è assai complicato per un capo dello Stato, non firmare la legge di bilancio (non ci sono precedenti), una volta approvata dal Parlamento. E rimandarla alle Camere: “Ci penserà due volte – scrive Cassese – perché in questo caso si dovrebbe ricorrere all’esercizio provvisorio (sempre benefico per l’equilibrio di bilanci, sempre pericoloso per le reazioni dei mercati”)”. Ci sono anche altre scuole di pensiero, sia come sia prima di tutto c’è il dilemma politico se fare o meno, della presidenza della Repubblica, anche in condizioni difficili, un soggetto attivo nella crisi prima che lo impongano, inevitabilmente, le circostanze.

L’HUFFPOST

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