Cambiare il passato: un vizio totalitario

Non è certo un male che in Parlamento si parli e si discuta di storia – maestra di vita, ahimè, in una classe di asini – se lo si facesse in modo non prevenuto e fazioso: com’è avvenuto ieri durante le celebrazioni per il centenario della nuova aula della Camera.

In quell’aula che Mussolini definì «sorda e grigia» (oggi colorata e colorita da deputati variopinti nei modi e negli abiti) sembra che abbia prevalso la faziosità, sia da parte di chi ha organizzato, sia da parte di chi ha commentato.

È dai tempi di Omero, ma anche prima, che la storia viene interpretata, celebrata, manipolata a seconda delle convenienze: in genere quelle dei vincitori. È accaduto in tutti i tempi e in tutti i paesi, e si continuerà così, perché il passato è la base del presente e annuncia il futuro. Interpretandolo in un certo modo – e più spesso manipolandolo – si cerca in realtà di sembrare diversi da quello che si è, e comunque di attribuire la colpa ad altri per ciò che non va.

In Italia accade forse più spesso, perché siamo un popolo fazioso per motivi storici (la lunga divisione, i campanili) e perché la nostra storia recente è avanzata per scossoni. Nel giro di appena un secolo il Risorgimento e l’Unità sono stati realizzati dalla classe dirigente liberale, ma il fascismo – per esaltare se stesso – pur esaltando Risorgimento e Unità ha dovuto infangare la classe dirigente liberale. Caduto il regime gli sconfitti della democrazia a lungo non hanno voluto riconoscere che quel regime godeva di simpatie popolari, dimenticando pure le proprie responsabilità per essersi trovati divisi e deboli davanti alla sua affermazione.

Se il mancato riconoscimento del «consenso» al fascismo è durato più del regime stesso – dal 1945 agli studi di Renzo De Felice, nella seconda metà degli anni Settanta – non stupisce che oggi ci si accapigli sulla prima guerra mondiale, la sua genesi, il suo svolgimento, la sua conclusione e le sue conseguenze. Il centenario favorisce sfoghi e singulti. È di questi giorni, per esempio, lo sdegno di un giornalista del Corriere della Sera verso Gabriele d’Annunzio, indicato fra i principali responsabili dell’ingresso in guerra dell’Italia: ma tacendo del tutto che, ben più di un poeta, influì sull’opinione pubblica e sul governo proprio la molto più autorevole voce del Corriere della Sera. E che, proprio dalle prime pagine di quel giornale, il Vate lanciava molti dei suoi appelli alla guerra.

Non ne farei una colpa né a d’Annunzio né al Corriere, quelli erano i tempi, quella era un’onda della storia che veniva da molto lontano, si potrebbe dire addirittura da un secolo esatto prima, dal Congresso di Vienna. Ma vallo a spiegare a chi vuole avere ragione a tutti i costi, specialmente quando ha torto (o non sa). È il caso dei politici, che per deformazione professionale partono dal bianco o dal nero, e fanno una grande fatica a intuire le tante sfumature del grigio.

Mancava di grigi, ovvero di «rossi», la cerimonia in Montecitorio per i cento anni della nuova aula, ma forse è stata peggiore la reazione di chi ha definito «lercia faziosità» una faziosità polverosa che si dovrebbe combattere più nelle università – in teoria fatte allo scopo – che in Parlamento. Il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa è stato corretto e lodevole andando a stringere la mano alla storica Simona Colarizi: «Le devo dire che la sua lezione non mi è piaciuta e ritengo un errore averla tenuta in quest’aula»; meno lodevole il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, che se l’è presa con uno storico e scrittore eccellente definendolo «l’improbabile professore Alessandro Barbero, presunto storico». Eppure sono dello stesso partito, a dimostrare che – più della fazione – in mancanza di altri strumenti dovrebbe contare il buonsenso.

IL GIORNALE

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