Il grande Nulla che si mangia tutto
di Marco Damilano
Il regime non riuscì a creare una propria classe politica e fallì sul terreno di quei ceti borghesi che avrebbero dovuto essere il punto di forza… Non solo non fu capace di crearla, ma era esso stesso la causa, principale e quindi ineliminabile di questa incapacità. Da qui il dramma del regime e la sua più intima condanna all’autodistruzione, a prescindere da quelle che furono poi le cause “esterne” della sua fine».
È il giudizio sintetico sulla parabola del ventennio fascista, formulato qualche decennio fa dal suo storico più illustre, Renzo De Felice. Mi è tornato in mente in questi giorni di polemiche furiose su borghesi, borghesucci, madamine e su altre parole che non sto qui a ripetere. Torna la borghesia nelle polemiche di questi giorni, a proposito della manifestazione di Torino Sì-Tav, a sorpresa, perché si tratta di un attore in gran parte assente nella vicenda italiana. Da noi, a differenza che in altri Stati europei, c’è la debolezza, l’assenza, l’incapacità della borghesia di caratterizzarsi come portatrice dell’interesse generale del Paese, il suo essere attratta da interessi piccoli, particolari, mediocri. Un enorme e indistinto ceto medio che non è mai riuscito a diventare borghesia, l’ha definito Giuseppe De Rita (Repubblica, 14 novembre), «un magma sociale che sobbolle proprio perché non riesce a fare quel salto».
Dopo il voto del 4 marzo e la vittoria del Movimento 5 Stelle, arrivato a percentuali superiori al trenta per cento e paragonabili a quelle dei grandi partiti rappresentanti di quel corpaccione centrale dell’elettorato italiano come la Democrazia cristiana, in tanti si sono chiesti, con speranza o con timore, se da quel magma politico sarebbe emerso l’embrione di una classe dirigente o se sarebbe rimasto un network di umori, un megafono di rancori, un insieme di frustrazioni impossibile da riportare all’interesse generale, nonostante l’identificazione con una piattaforma che prende il nome di Rousseau.
Oggi, dopo cinque mesi di governo, si può dire che quella scommessa stia fallendo, o meglio, che stia prendendo una piega molto conosciuta, in sintonia con la tradizione italiana.
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Il Movimento 5 Stelle, nato come l’alfiere del cambiamento e della rivoluzione, si propone sempre di più come l’ennesima versione del trasformismo, l’adeguamento ai vizi nazionali, un mosaico di rivendicazioni apparentemente irrisolvibili, più Alberto Sordi che Beppe Grillo (posto che come attore Sordi Grillo se lo sarebbe mangiato). Ci sono partiti che riuscendo a mediare tra interessi e spinte contrapposte sono rimasti al governo per decenni. Ma la Dc ha potuto farlo nella stagione della Prima Repubblica in virtù dell’intelligenza di una leadership plurale, di un radicamento territoriale e della presenza della Chiesa che consentiva di assorbire tutto. In più, c’era un sistema politico coerente e stabile e un quadro internazionale che manteneva l’equilibrio. Mentre per M5S non esiste nessuna di queste condizioni. Il sistema politico è disastrato e i riferimenti istituzionali vacillano, presidenza della Repubblica a parte: il Parlamento è vuoto, il governo è rappresentato da un presidente del Consiglio inconsistente e da ministri tanto inutili quanto arroganti, la burocrazia gira a vuoto in assenza di input e la ricostruzione del ponte Morandi a Genova sta già diventando lo specchio di un’impasse collettiva. E in M5S non si vedono leader né intelligenze, non si sa chi potrebbe tenere insieme le varie anime se dovessero cominciare ad andare in direzione opposta. M5S è il partito del condono, della promessa mancata, del fasullo elevato a cultura politica. Era già chiaro nelle premesse: il Vaffa per gli altri che deresponsabilizza, che scarica le colpe su altri, la Casta, il Potere, per non fare mai i conti con se stessi. Nella prova di governo tutto questo si è accentuato, fino a proporre un dilemma nuovo e forse inatteso: cosa fare se, in tempi rapidi, il Movimento dovesse implodere?
Nel Palazzo non si parla d’altro e la prospettiva alletta o atterrisce. Nessuno pensa, naturalmente, che un partito in grado di raccogliere il 32 per cento dei voti possa sparire da un momento all’altro. La precedente legislatura, poi, ha dimostrato che M5S è invulnerabile rispetto alle conseguenze di espulsioni, dimissioni, micro-scissioni. Nessuno dei fuoriusciti o degli espulsi tra i parlamentari è riuscito a farsi rieleggere, fuori da Roma solo il sindaco di Parma Federico Pizzarotti è riuscito a farsi rieleggere nella sua città fuori e contro M5S. La novità, però, è che lo scontro tra le diverse anime o, se si preferisce, tra i dirigenti e i peones avviene non sui dogmi di Grillo ma sulle politiche di governo, com’è successo al Senato sull’emendamento sul condono edilizio a Ischia, bocciato grazie al voto in dissenso di Gregorio De Falco e di Paola Nugnes.
Si parla di ortodossi e governativi, come in tutti i partiti nati da una posizione estrema, il solito dilemma. Quello che manca al Movimento per chiudere rapidamente la crepa è una cultura politica di base, quello che tiene tutti insieme, una leadership forte e riconosciuta, una serie di risultati da poter vantare. Resta il Movimento, un’entità metafisica e astratta, restano la piattaforma Rousseau e la Casaleggio associati con il suo carico di conflitto di interessi, di rapporti con le aziende pubbliche, ovviamente in crescita, e resta il potere conquistato che diventa la condizione esistenziale di M5S: il cambiamento c’è perché M5S è al governo e dunque restare o resistere al governo diventa un fine in sé, non è un mezzo per realizzare il contratto, il programma o alcunché.
L’immobilismo si addice al Movimento, lo si è capito da tempo, se M5S sceglie muore oppure svela la sua vera natura, di conservazione dell’esistente. Se Luigi Di Maio per sopravvivere è costretto a mantenere tutto bloccato all’anno zero, in un eterno attimo di partenza, la Lega di Matteo Salvini ha l’interesse opposto: mettere tutto in movimento, portare a compimento la campagna di conquista del centrodestra cominciata dopo il voto del 4 marzo, quando il capo leghista ha deciso di separare i suoi destini da quello di Silvio Berlusconi. Restare al governo per Salvini è un mezzo, a differenza di Di Maio, per cui è un fine. Un mezzo per accrescere consenso, potere, autorevolezza. Internazionale, un trampolino per passare all’assalto dell’Europa. In questi percorsi paralleli le due strade sono destinate a separarsi, perché è difficile per Salvini immaginare di restare a lungo al governo con i Toninelli o con il partito di Virginia Raggi senza pagare a sua volta un prezzo elettorale o la delusione del pragmatico elettorato del Nord che non ama i no di M5S e una visione non soltanto sovranista ma autarchica.
Bisogna trovare il momento giusto per scendere dall’alleanza, prima che la delusione per il Movimento 5 Stelle si estenda anche in direzione Lega.
A questo servono i nemici esterni: a giustificare ritardi, contraddizioni, frenate, marce indietro, e anche rotture. L’Europa è il nemico perfetto, con la sua burocrazia sclerotizzata, con l’impossibilità di prendere posizione anche nel caso della procedura di infrazione nei confronti del governo italiano, degna di Bisanzio più che di Bruxelles. I giornalisti sono l’altro nemico perfetto di questo movimento che si abbevera di visibilità e prospera nelle polemiche mediatiche, ma che al tempo stesso vorrebbe mutilare il giornalismo del suo ruolo più essenziale: le inchieste, le critiche, le domande, la possibilità di dare all’opinione pubblica strumenti per giudicare più flessibili e meno definitivi di quelli di cui gode la magistratura, ma altrettanto importanti per il controllo del potere. La democrazia è quel sistema in cui la stampa controlla e critica il potere, in regimi di altro tipo succede l’opposto, il potere controlla la stampa e condiziona i giornalisti. Qui da noi, nell’Italia 2018, tutto questo avviene con la partecipazione e la complicità di altri giornalisti, i più anti, naturalmente. E si perpetua così un altro classico della tradizione italiana: fare opposizione dai vertici del potere, perché – naturalmente – il vero potere è sempre altrove: tra i centri finanziari, tra gli editori, sui giornali, in tv.
L’attacco ai giornalisti scatenato dai capi dei Cinque Stelle è il segno più fragoroso di una difficoltà, di un rischio implosione più vicino di quello che si pensi. Tutto questo dovrebbe spingere l’opposizione ad accelerare, a tenersi pronta per elezioni che potrebbero rivelarsi più vicine del previsto. Fino a poche ore prima della comunicazione della sua decisione, Marco Minniti è stato molto incerto se candidarsi o no alla segreteria del Pd. In queste settimane l’ex ministro dell’Interno ha spiegato ai suoi interlocutori di avere tutto da perdere e di aver valutato la possibilità di entrare nella corsa perché estremamente preoccupato per le sorti della democrazia italiana.
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Una scena pesantemente condizionata da attori internazionali che si muovono da padroni in Italia, a partire da quel Vladimir Putin che è stato il vero protagonista nascosto della conferenza di pace sulla Libia di Palermo e che spesso dà l’impressione di muovere a suo piacimento i partiti del governo italiano sulla scacchiera continentale: uno sprazzo del potere di condizionamento che l’ex blocco sovietico esercita in Italia e nel resto d’Europa ce lo danno le inchieste di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Stefano Vergine e Francesca Sironi. In questa situazione, l’Italia rischia di scivolare verso lande sconosciute, uno di quei paesi in cui l’opposizione politica non esiste o è affidata ad alcuni giornalisti e intellettuali coraggiosi e quasi sempre avversati dai governanti. Che un’analisi così cupa sia in gran parte condivisa da un uomo che ha gestito negli ultimi anni gli apparati di sicurezza e i servizi di intelligence è un motivo di preoccupazione in più.
Ora la scelta di Minniti è compiuta, così come quella di Nicola Zingaretti e di Maurizio Martina, e il congresso finalmente comincia. Resta l’esigenza di avere in tempi rapidi un leader riconosciuto per il principale partito di opposizione che avverte il pericolo della dissoluzione, con il suo ex leader Matteo Renzi che ormai visibilmente sta con un piede dentro e uno fuori. Ed è l’unico elemento che per paradosso avvicina M5S e Pd: il principale partito di governo e il principale partito di opposizione condividono la stessa situazione di possibile implosione. In un sistema impazzito.
L’ESPRESSO