La strana strategia del tattico Salvini

Nel «day after» dell’affronto all’identità dei 5stelle, cioè l’approvazione dell’emendamento che rivede il reato di peculato, a Montecitorio va in scena l’autocoscienza grillina. La ferita è grave: l’imboscata di una vecchia conoscenza della prima Repubblica, come i franchi tiratori, nell’occasione di marca leghista, ha lasciato il segno.

Eccome. «Non siamo abituati ammette il ministro della Giustizia, Bonafede nel movimento che chi dissente ne parli ai giornali; nei partiti, invece, ci sono altri modi per dimostrare il dissenso verso le leadership…». Pochi passi più in là il portavoce Rocco Casalino smentisce ipotesi di rappresaglia verso i leghisti, magari sul decreto sicurezza, ma aggiunge, nel suo stile, una postilla al vetriolo: «La vendetta è un piatto che si serve freddo». Mentre il ministro Riccardo Fraccaro azzarda una disquisizione sull’antropologia grillina. «Noi siamo dei pivelli, siamo degli innocenti», esordisce, «si tratta di un’operazione studiata. Ma che avremmo potuto fare? Siamo vittime di una congiura condotta in segreto, nel magma. Sono i nostri alleati, divisi tra salviniani, maroniani e giorgettiani a confrontarsi nel voto segreto. Dovremo studiare delle contromisure». Poi il pensiero va all’altra imboscata del giorno, anche quella annunciata: la bocciatura della manovra a Bruxelles. «A che punto è lo spread?», chiede il ministro all’inviato della Casaleggio associati nel governo, Pietro Dettori. «Sopra i 300 punti», è la risposta. «Ah, bene sorride con una punta d’ironia Fraccaro , siamo ancora ai preliminari. Comunque, niente paura, dopo le elezioni europee a Bruxelles cambieranno gli equilibri e altre persone daranno le carte».

Già, per darsi coraggio i grillini debbono affidarsi alla speranza. Non ci sono più certezze né a Bruxelles, né a Roma. E il dubbio più lancinante riguarda Matteo Salvini e le sue intenzioni. Il vicepremier leghista ha dato il suo ok all’imboscata, o no? Un sospetto talmente destabilizzante, che ieri in un colloquio Di Maio ha preteso la presenza di Salvini in Parlamento chiedendogli di vigilare sui suoi. Il leader del Carroccio, a dire la verità, dopo il voto della discordia ha fatto di tutto per dimostrare il contrario. Ha assecondato il tentativo del governo di rimediare subito all’incidente con un maxi-emendamento: solo che né il presidente della Camera, Fico, né soprattutto il capo dello Stato, Mattarella, ne hanno voluto sapere. Allora ha assecondato le decisioni di Conte e Di Maio e ha sparato, mostrando platealmente in pubblico la sua ira, sugli autori dell’imboscata. «Sono incazzato nero», ha detto a una parlamentare di Forza Italia. «A me il voto segreto sta sulle palle», ha dichiarato ai cronisti. E ha minacciato la qualunque. L’opposizione: «Questi di Forza Italia giocano con il Pd, voglio vedere quanti ne ritornerebbero in Parlamento se si andasse ad elezioni». Ma anche i suoi: «I nostri problemi – ha fatto presente ad un gruppo di leghisti con la faccia di chi non promette nulla di buono li risolviamo in altra sede». Poi ai fedelissimi ha spiegato la sua opinione su come sono andate le cose: «Si sono mossi cinque furbi che si sono portati dietro un certo numero di inconsapevoli».

Ora bisogna vedere se Salvini è sincero o è un attore consumato. L’unica cosa che non può smentire è la presenza di leghisti tra i franchi tiratori che hanno sconfitto il governo. «Io ho trattato confida Cosimo Ferri, che ha organizzato le fila dei dissenzienti anche dalle parti del Pd con il capogruppo del Carroccio, Molinari. E con tutti gli interessati, che non sono pochi». Insomma, un governo che ha una maggioranza ampia alla Camera, non va giù per caso. Per cui, al di là dell’incidente in questione, Salvini dovrebbe porsi il problema se la sua linea politica è giusta o sbagliata. Magari arriverebbe ad una conclusione che è l’opinione di molti: il leader della Lega, per ora, è un eccellente tattico, ma un pessimo stratega. Per essere uno stratega bisogna vedere lontano, conoscere il Dna del proprio partito e mettere in piedi alleanze, linee politiche e programmi compatibili. Altrimenti si rischia di ripetere l’esperienza dei «dalemoni» di Massimo D’Alema, cioè piani complicatissimi che hanno portato solo guai all’autore. O, ancora, certi azzardi di Matteo Renzi: se fossero passate le sue riforme, dopo la vittoria gialloverde molti sarebbero stati costretti ad espatriare. Appunto, ottimi tattici, ma pessimi strateghi.

Ebbene, Salvini non vuole prendere atto che su questioni cruciali i grillini sono agli antipodi rispetto alla Lega. A cominciare dalla giustizia. Se il Pd ha una parte della vecchia «magistratura democratica» che lo garantisce, se i grillini godono della simpatia della magistratura più interventista (Davigo e soci), i leghisti sono soli: e ora, stando al governo, sono esposti tra l’incudine e il martello. Per cui è evidente che l’umore prevalente è quello di non subire l’impalcatura giustizialista che sostiene il decreto «anti-corruzione». Come non possono accettare la filosofia da «oscurantismo medioevale» con cui i 5stelle si rapportano con i termovalorizzatori o con le grandi infrastrutture. Sono nodi che prima o poi vengono al pettine. Tant’è che l’epilogo della sconfitta del governo sull’emendamento sul peculato era annunciato. Bastava leggere l’edizione di questo giornale del 6 novembre.

Stesso discorso vale per l’Europa. Salvini può dire che i numeri della manovra non si toccano, ma se il più sovranista di tutti in Europa, Viktor Orban, invita l’Italia al rigore qualche dubbio gli dovrebbe pur venire. Tanto più che le riserve a Bruxelles non riguardano tanto quel 2,4% di rapporto deficit-pil contenuto nella manovra, per molti di gran lunga superato (in Confindustria parlano del 3,1%), quanto l’impostazione assistenziale d’ispirazione grillina (reddito di cittadinanza). Un’impostazione che mette in subbuglio l’elettorato leghista del Nord e che non convince molti parlamentari del Carroccio. «Dovremo spostare risorse ammette il sottosegretario all’Economia, Garavaglia sugli investimenti o su misure che favoriscono la crescita. E cominceremo a farlo anche nel decreto fiscale».

Insomma, più passano i giorni e più ci si accorge che l’alleanza gialloverde è avventata: lo scrive un maître à penser grillino come Travaglio, ne è convinto Berlusconi. E ne parlano, pensando al futuro, al Quirinale, come in Parlamento. Chi ha sentito gli echi dell’incontro tra Mattarella e Berlusconi, dice che il presidente è contrario alle elezioni, si mostra freddo su Salvini e simpatizza per Draghi. Chi ha ascoltato i sussurri dell’incontro tra il Cav e Salvini racconta, invece, che il leader della Lega non metterà in crisi il governo, ma è convinto che lo faranno i grillini. E intanto in Parlamento cominciano le manovre per mettere in piedi il gruppo dei «responsabili» di turno per cambiare il governo e salvare la legislatura. «Se Salvini fa un fischio – assicura il piddino Rosato ci sono 40 grillini pronti a passare con lui». Ma perché il leader della Lega sta fermo? Non ha ancora una strategia e si rifugia nella «tattica» più semplice: tenere in piedi il governo. Solo che le cose vanno avanti anche senza di lui. «Se sali su una scala per riparare un lampadario e la scala oscilla sostiene Renato Brunetta alla fine vai giù. E ho la sensazione che tra spread e guai vari, questo governo cadrà prima di dicembre».

IL GIORNALE

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