Tutto bene signor Conte
Tartare di orata, filetto di vitello, funghi porcini, pancetta, cipolle, meringa con marmellata di mele cotogne. Apparentemente c’è più armonia tra Giuseppe Conte e Jean Claude Juncker di quanta ce ne fosse nel menù che hanno condiviso a cena con Giovanni Tria, Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis. Una cena “per ribadire l’apertura del dialogo” (premier dixit), preceduta da un faccia a faccia di venti minuti tra i due leader. Il clima cordiale – il presidente della Commissione europea è un intrattenitore sopraffino – e le pacche sulle spalle regalate ai reporter durante una breve photo-opportunity non sono bastati per innescare il momento catartico di un rapporto che definire complicato è eufemistico.
È lo stesso presidente del Consiglio a definire l’incontro “non risolutivo”, ma anche a delineare un vaste programme: “Confido che il dialogo possa portare a evitare la procedura”. Qualche passettino avanti c’è stato. Cose di contorno, utili a definire la cornice di un rapporto sfilacciato, ma non ancora sufficienti per dipingere un quadro comune.
Juncker ha insistito molto sui toni. Se da Roma, il senso del ragionamento, parte un’invettiva al giorno nei nostri confronti dialogare diventa complicatissimo. Se non un impegno nel portare a più miti consigli (almeno verbali) Luigi Di Maio e Matteo Salvini poco ci manca. Anche perché il lussemburghese ha ribadito il rispetto che la comunità europea nutre per Conte. Come a dire: l’interlocutore sei tu, tieni a bada i tuoi. Quando la prima portata era in procinto di essere sparecchiata, ecco che su Facebook si palesava il leader della Lega, rilanciando un intervento dai toni barricaderi: “All’Europa chiedo rispetto, io non arretro”.
Richiesta che ha trovato comprensione nell’interlocutore italiano: “Abbiamo convenuto che i toni devono essere mantenuti bassi e confidare che lo spread possa scendere”. Nel dopo cena si adegua anche Salvini: “Bene Conte – ha detto il vicepremier leghista -. Dialogo e buon senso nell’interesse dell’Italia, nessun passo indietro, ma la voglia di valutare bene tempi e numeri di spese e investimenti”.
Non è un caso che con il capo del governo ci fosse Tria. Il ministro dell’Economia è estremamente parco nel suo eloquio. Ed è quello che ha mantenuto i migliori rapporti con la Commissione, Moscovici in testa, in queste settimane di asprezze. Oltre a essere il più titolato a presentare il piano per convincere l’Ue a non randellarci, quaranta pagine fatte di risparmi accorti su reddito di cittadinanza e riforma della Fornero, investimenti, razionalizzazione della spesa e razionalizzazione delle spese. Un 2,4% di deficit che nominalmente rimane scolpito sulla pietra, ma che si assicura alla fine non sarà tale.
Un po’ poco, considerando l’irremovibilità a intaccare il fondo che contiene le norme chiave per il Carroccio e il Movimento 5 stelle. “Non abbiamo parlato di saldi finali, ma non ho messo sul tavolo nessuna rinuncia alle nostre misure qualificanti”. La strada è stretta, e le stesse fonti di Palazzo Chigi fanno capire come la fase sia estremamente “delicata”. Un portavoce della Commissione ha spiegato come “il lavoro proseguirà nei prossimi giorni per avvicinare i punti di vista e cercare una soluzione di prospettiva”. “La partita non è chiusa”, ha commentato il premier con i suoi.
La parola chiave, spiega chi l’ha sentito nel corso della serata, è “tempi distesi”. Il governo ha chiesto che la deadline per assumere eventuali decisioni sia spostata in là, all’ultimo giorno utile, per dare modo alla legge di bilancio di produrre i suoi primi effetti e ammorbidire la posizione dell’Ue. L’obiettivo è rimandare tutto a dopo le europee. Tempo, dunque, ma anche riservatezza. Conte ha fatto leva sull’articolo 126 dei Trattati. Quello che consente di mantenere “secretate” le raccomandazioni formali che l’Ecofin dovrà prendere a gennaio su impulso dell’esecutivo europeo, finché non si accerti che il governo del paese in infrazione non abbia dato seguito alla raccomandazione stessa.
Un modo per arrivare sostanzialmente indenni alle urne di maggio, nella speranza che i rapporti di forza si ribaltino e l’agibilità politica del governo gialloverde nel Vecchio continente subisca uno scarto.
Una montagna da scalare, della quale al momento non si vede la vetta. Qualche passo di avvicinamento si è fatto a valle, tra gli umidi muschi del bosco. Quel tanto che basta per uno slancio di ottimismo: “La partita non è chiusa”. Ma il sentiero è ancora lungo e impervio. E gli strampiombi a entrambi i lati mettono paura