I populisti diventati d’élite
Il tratto caratteristico del governo M5S-Lega è l’alta conflittualità interna. Le due parti che lo compongono, al sesto mese di vita, sono in continua campagna elettorale l’una contro l’altra. Sono destinate a convivere, in assenza di alternative realistiche, ma si fanno la guerra, in un continuo parlare di crisi e di dimissioni di ministri, di imboscate e bocciature parlamentari e di sgambetti nei ministeri. Anche in precedenti governi vi sono stati disaccordi e tensioni, ma rappresentavano punti di vista diversi tra forze politiche legate da un’intesa, che non contavano di presentarsi presto all’elettorato come alternative. Da dove provengono queste debolezze?
Il primo fattore negativo sta nel programma. Il tanto sbandierato «contratto per il governo del cambiamento», firmato il 18 maggio 2018, è citato ogni giorno, ma è più quel che non dice di quello che proclama. Per un confronto, basta ricordare che è lungo 58 pagine, mentre l’omologo «Koalitionsvertrag» tedesco del 12 marzo 2018 (peraltro firmato da forze politiche più vicine e che avevano a lungo collaborato in precedenza) è lungo tre volte tanto, 175 pagine. Una prova di questa indefinizione delle politiche a monte sta nel modo in cui si annunciano reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero: sono accantonati i fondi relativi nel progetto di bilancio, ma non ne sono definiti i contenuti. I due obiettivi sono per ora scatole vuote, tanto che s’è affacciata la proposta di trasformare il reddito in un bonus alle imprese, equivalente al sussidio per la formazione e la riqualificazione dei disoccupati.
All’indefinizione delle politiche si accompagna il funzionamento a scartamento ridotto del centro motore del governo. Il Consiglio dei ministri continua, secondo tradizione, a riunirsi una volta alla settimana, ma le sue riunioni si svolgono in un tempo oscillante tra trenta minuti e un’ora, per lo più a fine giornata, alle 19.30-20, quando si finisce di lavorare. È abbastanza chiaro che il governo è ridotto a organo di ratifica di decisioni prese altrove. La conflittualità interna è poi alimentata da un continuo debordare dei due vicepresidenti. Il ministro dell’Interno-vicepresidente mantiene anche rapporti con potenze straniere e si preoccupa della salute dei cittadini, invadendo la sfera di competenza dei ministri di settore. Insieme, i due vicepresidenti condizionano l’azione del ministro dell’Economia e dettano la linea del governo, in palese violazione dell’articolo 95 della Costituzione secondo il quale «il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo».
C’è, infine, l’esondazione continua in aree escluse dall’intervento governativo. Andando ben al di là del nefasto spoils system, il governo invita titolari di cariche pubbliche a dimettersi, per liberare posti. Ci si potrebbe immaginare, con un regime di tal fatta, ministri seduti giorno e notte al tavolo di lavoro. Invece, questo non accade. I duumviri, specialmente loro, sono sempre in giro, in campagna elettorale, in vista del voto europeo, preoccupati di guadagnare nuovi elettori. Nella quotidiana attività burocratica — per quel che si legge sui siti dei rispettivi ministeri — non viene posta la stessa cura dedicata all’immagine pubblica. L’acme è stato raggiunto dalla foto a cavallo del ministro dell’interno nella stessa posa di Napoleone nella traversata delle Alpi, secondo il pennello del grande David. Lo scenario è completato da uno stile arrogante o sarcastico di comunicazione, a volte puerile, specialmente sprezzante nei confronti di quell’Unione europea alla quale dobbiamo sessant’anni di pace e benessere, e questo solo perché essa ci ricorda quali sono i nostri debiti e quanti pericoli corre la nostra economia. In conclusione, siamo governati male, con metodi pessimi, da ministri disattenti e perfino indifferenti al benessere della collettività. Essi amano fregiarsi dell’aggettivo di populisti, ma non hanno fatto neppure ricorso a strumenti di democrazia deliberativa (consultazioni popolari) sulle decisioni prese (che io sappia, l’unica consultazione avviata riguarda la riforma del codice dei contratti pubblici). Il 13 settembre il ministro dell’Interno, in una intervista a Time, ha dichiarato che non esiste più conflitto tra destra e sinistra, ma tra popolo ed élite, mettendosi dalla parte del popolo. Ma l’élite è composta dai detentori del potere, dalle persone in posizione direttiva, che governano la società. Dunque, lui fa ora parte dell’élite. E — parola di Vilfredo Pareto — «la storia è un cimitero di élite».
CORRIERE.IT
This entry was posted on domenica, Novembre 25th, 2018 at 09:06 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.