Reddito di cittadinanza, la metamorfosi del sussidio M5S
Che il cosiddetto «reddito di cittadinanza» sia il marchio distintivo del Movimento 5 Stelle è fuor di dubbio. Ma questa misura «fiamma della dignità», come la definì Beppe Grillo, che con Gianroberto Casaleggio dedicò ad essa la marcia Perugia-Assisi del 2015, si è via via depontenziata, ancor prima di prendere la forma di una proposta di legge, che il governo Conte, non a caso, non ha ancora presentato e che, ora, rischia di subire altri ridimensionamenti sull’altare della trattativa con Bruxelles.
Nella passata legislatura i 5 stelle presentarono nel 2013 una proposta di legge che già indicava un sussidio fino a 780 euro al mese per chiunque non arrivasse a questo reddito, prevedendone il costo annuo, sulla base delle stime fatte dall’Istat, in quasi 17 miliardi all’anno. Questa misura fu quindi riproposta nel programma elettorale del Movimento guidato da Luigi Di Maio, precisando che il sussidio sarebbe andato a 9 milioni di poveri, che una famiglia di 4 persone «può arrivare a percepire anche 1.950 euro» al mese e che circa 2 miliardi sarebbero stati destinati al potenziamento dei centri pubblici per l’impiego che avrebbero gestito la riforma. Mantenendo fermi i punti cardine la proposta fu quindi trasferita nel cosiddetto «contratto di governo» alla base dell’esecutivo Conte. Anzi, al reddito di cittadinanza, si aggiunse la pensione di cittadinanza per tutti i pensionati poveri, il cui assegno sarebbe stato appunto integrato fino a 780 euro. Con il disegno di legge di Bilancio, presentato dal governo e ora all’esame della Camera, è stato stanziato solo un fondo di 9 miliardi l’anno dal 2019 per il reddito e la pensione di cittadinanza, rinviando a specifici provvedimenti, che il governo appunto ancora non ha preso, l’attuazione della misura.
Del fondo fanno parte gli oltre 2 miliardi già stanziati dal governo Gentiloni per il Rei, il reddito di inclusione. Dei 9 miliardi, 7,1 dovrebbero servire al vero e proprio «reddito di cittadinanza», 900 milioni alla «pensione di cittadinanza» e un miliardo ai centri per l’impiego.
Lo stanziamento, insomma, è stato dimezzato rispetto ai 17 miliardi del progetto iniziale dei 5 Stelle. E non a caso il governo ora parla di una platea di 5-6 milioni di beneficiari. I conti, però, non tornano lo stesso. Se prendiamo gli 8 miliardi destinati complessivamente a reddito e pensioni di cittadinanza e li dividiamo per i 5 milioni di persone in condizioni di «povertà assoluta» secondo l’Istat, otteniamo una media di 1.600 euro all’anno, cioè 133 euro al mese per 12 mesi. Anche riducendo l’erogazione a 9 mesi, perché ora si ipotizza che i primi assegni verranno pagati ad aprile, si sale solo a 177 euro al mese. Prendendo più correttamente a riferimento le famiglie in povertà assoluta (1,8 milioni) perché il requisito per ottenere il sussidio sarà l’Isee, cioè l’indicatore della ricchezza familiare, si ottiene che ad ogni famiglia dovrebbero andare in media 4.444 euro all’anno, cioè 370 euro al mese su 12 mesi o 493 euro su 9 mesi. La coperta, insomma, era già corta prima dell’apertura della trattativa con Bruxelles. Non a caso i tecnici del governo avevano cominciato a mettere le mani avanti, spiegando che l’integrazione fino a 780 euro sarebbe andata solo a chi è in affitto mentre chi vive in casa di proprietà avrebbe avuto al massimo 500 euro. Venivano inoltre sottolineati i diversi paletti per ottenere il sussidio, tutti volti a restringere la platea: disponibilità a svolgere 8 ore a settimana di servizi di pubblica; obbligo di partecipare a corsi di formazione; di non rifiutare più di tre offerte di lavoro; di sottoporsi a controlli incrociati su quanto dichiarato con la pena del carcere in caso di truffa. Ora l’impressione è che se per fare l’accordo con l’Ue, lo stanziamento a disposizione si dovesse ridurre, bisognerebbe rivedere i fondamentali stessi della misura.
CORRIERE.IT
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