Pil e disoccupazione: ogni giorno si perdono 627 posti di lavoro

di Federico Fubini

Continua il divorzio fra preferenze pubbliche e comportamenti privati. E prosegue la schizofrenia fra gli orientamenti politici degli italiani e le loro scelte quando sono chiamati a spendere, investire o creare lavoro. Il governo vive ancora una luna di miele nel Paese, eppure quest’ultimo mostra anche una sorta di progressiva perdita di fiducia nelle proprie possibilità.

Un mese fa Lega e M5S potevano contare sul 57,8% nella media dei sondaggi registrati da «youtrend.it», più del 50,1% del giorno delle elezioni di marzo ma appena meno delle medie più recenti. Il consenso verso di loro, in aggregato, non ha mai smesso di salire. Nel frattempo però le famiglie italiane hanno smesso di spendere e le imprese hanno rinunciato a investire a un punto tale da far arretrare l’economia durante l’estate e da portare il Paese forse già nel pieno di una recessione. Al punto, persino, da far registrare nei primi cinque mesi di vita del governo un ritmo di distruzione di posti di lavoro persino più rapido di quello che il Paese ha vissuto durante la grande crisi del debito del 2011-2013.

Da quando Giuseppe Conte siede a Palazzo Chigi, secondo un’elaborazione sulla base dei dati Istat aggiornata a ottobre, in Italia si sono persi in media 627 posti di lavoro al giorno (sotto il governo di Mario Monti, nel pieno di una stretta di bilancio, ne furono persi in media 609 al giorno).

Questo dato contrasta con una creazione netta di circa mille posti al giorno durante il governo di Paolo Gentiloni. Nel frattempo la popolarità dell’attuale esecutivo ha continuato a crescere e nel terzo trimestre dell’anno per la prima volta dal 2014 il prodotto lordo ha iniziato a contrarsi. Sempre ieri l’Istat, l’istituto statistico, ha fatto sapere che il fattore determinante di questa caduta dell’economia non è stato l’export perché colpito dalle tensioni commerciali internazionali ma la domanda interna, fatta di investimenti delle imprese e consumi delle famiglie. Gli stessi italiani, che in maggioranza apprezzano il governo, non credono alle prospettive del Paese: gli acquisti di beni durevoli delle famiglie sono calati, la spesa per impianti e macchinari è crollata.

A questo punto, per la prima volta dopo oltre cinque anni, il Paese probabilmente è già ridisceso in una recessione. L’indice della Banca d’Italia che sintetizza tutti i dati disponibili, Ita-Coin, mostra come ottobre sia persino più debole di settembre. Ciò significa che la fine dell’anno si prospetta anch’essa in arretramento: nel febbraio prossimo, nella fase più delicata dell’emissione di titoli di Stato per finanziare il debito nel 2019, l’Istat potrebbe dover comunicare che l’economia è scivolata anche alla fine di quest’anno e dunque il Paese è tecnicamente in recessione. Non sarebbe il miglior viatico per attrarre quegli investitori in titoli di Stato che serviranno a garantire una stabilità finanziaria ancora vulnerabile.

Il fatto che la recessione coincida con i mesi del governo populista non comporta, in sé, che tutte le responsabilità siano delle sue politiche. L’Italia che si è affidata a Lega e M5S era ancora fragile, probabilmente tutt’altro che pronta ad affrontare la fine del sostegno della Banca centrale europea. Gli acquisti di titoli di Stato con il «quantitative easing» valevano 7,95 miliardi di euro a dicembre scorso, 3,94 miliardi a giugno e 1,75 miliardi in ottobre. In parallelo a questo declino l’economia si è fermata, così come ha frenato l’intera area euro mentre la Bce nel 2018 era costretta a rallentare gli interventi. Ma nessun Paese europeo è piombato in recessione a «quantitative easing» ancora in corso come l’Italia.

Questi mesi dimostrano che non può esserci crescita se il governo non garantisce in primo luogo la stabilità finanziaria. Se non lo fa le aziende non investono e le banche, cariche di debito pubblico, tagliano le linee di credito e generano così fallimenti e disoccupazione. Per ora il divorzio fra percezione politica e realtà economica degli italiani continua, ma prima o poi le due dovranno convergere: verso l’alto, oppure verso il basso.

CORRIERE.IT

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