Il presidente-tycoon sente di dover dare una scossa

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Prima Donald Trump ha incassato un successo d’immagine e di principio al G20: nel comunicato finale non c’è traccia di condanna del protezionismo; anzi c’è un giudizio severo sul commercio internazionale che non ha dato i benefici attesi. Poi, a summit già concluso, quindi in una logica tutta bilaterale di rapporto tra le due superpotenze e tra due “uomini forti”, ha deciso di fare una scommessa. Ha voluto credere che Xi Jinping voglia e possa fargli delle concessioni reali su quel commercio internazionale così squilibrato in favore della Cina.

Ci vorranno alcuni giorni per scoprire in tutti i dettagli che cosa si sono dette le due delegazioni americana e cinese nella riunione post-vertice. Ed è probabile che ci saranno versioni discordanti tra Washington e Pechino; probabilmente emergerà anche qualche dissenso tra falchi e colombe nella Casa Bianca. Il rischio che corre Trump, infatti, è quello che lui stesso ha più volte paventato esplicitamente: farsi intrappolare in una serie di incontri successivi, tra negoziati, promesse, per poi scoprire alla prova dei fatti che i cinesi non cambiano veramente.

Va ricordato infatti che il protezionismo lo pratica già la Cina da un paio di decenni, con determinazione e con successo: Xi non cambierà a cuor leggero delle pratiche “asimmetriche” che hanno accelerato l’aggancio Cina-Usa. Trump ha più volte accusato i suoi tre predecessori Clinton Bush Obama di aver preso per buone le promesse cinesi e di non aver difeso in modo efficace gli interessi delle imprese e dei lavoratori americani. Ora perché corre lui il rischio di subire tattiche dilatorie? E di trovarsi a corto di successi su una sfida cruciale per il suo elettorato?

Perché concedere tempo a Pechino, mentre siamo entrati nel “secondo biennio” e già i democratici si scaldano per l’elezione presidenziale del 2020? Una delle chiavi del comportamento di Trump viene proprio dal Midwest che gli fu decisivo nel voto del 2016. La recente decisione di General Motors di chiudere cinque fabbriche e licenziare 15.000 dipendenti tra Michigan e Ohio è uno dei segnali che la congiuntura sta peggiorando. La crescita mondiale rallenta.

Gli indici di Borsa hanno avuto un paio di mesi difficili. La Federal Reserve alza i tassi (e Trump non perde occasione per criticarla). Il presidente-tycoon, che si fida del suo istinto, deve sentire che urge dare una scossa positiva. Tanto meglio per la sua immagine se questa scossa positiva avviene all’insegna di un’intesa personale tra due “leader maximi”. La tregua alla Cina può avere questa funzione. Salvo trasformarsi in boomerang, se i risultati tardano a venire per i metalmeccanici e i siderurgici del Midwest.

REP.IT

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