Manovra, braccio di ferro sulle modifiche
Il baricentro della nuova manovra – quella che il governo gialloverde sta riscrivendo per ingraziarsi Bruxelles – ancora non c’è. Non è la trattativa politica con la Commissione europea a determinare il disallineamento: la missione del premier Giuseppe Conte e del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, al G-20 di Buenos Aires ha portato a un punto di caduta se non positivo in modo definitivo quantomeno clemente. La trattativa sulla procedura d’infrazione, in altre parole, ora ha una base comune e non due posizioni opposte. Il caos nasce in casa ed è generato da un nuovo braccio di ferro tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Perché dietro l’operazione smonta e rimonta, per portare il deficit dal 2,4% al 2,1%, si gioca la partita più delicata per i due partiti al governo. Chi pagherà, elettoralmente parlando, lo scotto più pesante?
È intorno a questo interrogativo che ruotano i lavori del governo sulla legge di bilancio. La domanda non ha ancora una risposta certa e i due vicepremier stanno facendo di tutto per evitare questo quesito. Dare una risposta, infatti, significherebbe sancire la vittoria di una parte sull’altra: quindi nuove fibrillazioni, corredate da veti incrociati e controversie da ricomporre forse con il metodo dello scambio, già utilizzato nelle scorse settimane per temi delicati come la giustizia e la sicurezza. Solo che le ultime vicende, fatte deflagrare nelle aule parlamentari, hanno dimostrato come questo metodo si sia incrinato: non è quindi certo un esito positivo. Sulla manovra si registra lo stesso leit motiv. A oggi siamo alla fase della controversia, puntellata dal merito di questioni pesanti perché quello che sta andando in scena – secondo quanto riferiscono fonti di governo a Huffpost – è un tira e molla sulle due misure più care ai due partiti, cioè il reddito di cittadinanza e la quota 100.
Per spiegare come questo braccio di ferro si sta consumando è necessario entrare nel merito della questione. La manovra è all’esame della commissione Bilancio che da giorni è bloccata ed è in attesa degli emendamenti del governo. L’arrivo in aula del provvedimento è slittato a mercoledì 5 dicembre: solo in pochissime altre occasioni una legge di bilancio non ha ricevuto un primo via libera da parte di un’aula parlamentare a fine novembre. Questa manovra entrerà in questa casistica non certo brillante. I lavori non vanno avanti: le proposte di modifica dell’esecutivo erano attese alle 19 di sabato, poi nella notte. Ancora non si sono visti. In questa spirale di ritardi e attese, gli emendamenti sono al centro di un confezionamento tutt’altro che definito. Ne è prova, appunto, lo slittamento della presentazione. Riguarderanno – secondo quanto si apprende da fonti della commissione Bilancio – temi non principali. C’è, però, un’eccezione ed è un’eccezione potenziale. È qui il cuore del dissidio tra il Carroccio e i pentastellati. Perché Di Maio vorrebbe inserire le norme per tagliare le pensioni d’oro già nel passaggio della manovra a Montecitorio mentre i leghisti sarebbero contrari perché vogliono legarla alla quota 100, la misura che permetterà di andare in anticipo in pensione con 62 anni di età e 38 anni di contributi.
Non è una questione di tempi. È una questione di incassi, di misure realizzate da portare ai rispettivi elettorati. Ed è anche un tema di equilibri di forza dentro il governo stesso, appunto tra i due azionisti. Insomma nessuno dei due coinquilini di governo vuole lasciare fare un passo all’altro senza seguirlo a ruota. La dinamica è quella della tentata fuga con annesso pedinamento. La Lega, dal canto suo, può contare su un vantaggio e cioè che l’emendamento per la quota 100 è pronto mentre le norme sul reddito di cittadinanza – anche alla luce dello sgonfiamento in cantiere – ancora no. I 5 Stelle, in altre parole, non possono permettersi di dare spazio alla quota 100 già alla Camera e in generale durante l’iter parlamentare perché il reddito arriverà, con decreto, dopo la manovra, non subito. Il rischio è quello di fare passare Salvini all’incasso e di restare poi scoperti con la misura più ambita e che paga di più elettoralmente.
Questo lo stato della trattativa nella trattativa. Il filo rosso che invece accomuna Lega e 5 Stelle è la necessità di togliere risorse sia alla quota 100 che al reddito. Il Carroccio i conti li ha fatti ed è pronto a scendere da 6,7 miliardi a circa 5. I pentastellati, invece, provano a tenere il punto: smentiscono il taglio dell’assegno promesso, di importo pari a 780 euro, ma per portare il proprio contributo al calo del deficit è necessario un intervento. Che sia una decurtazione dell’assegno o un restringimento della platea dei beneficiari, il nodo è ancora tutto da sciogliere. Ed è legato a tanti altri nodi, da quelli interni a quelli esterni, da Salvini all’Europa.
L’HUFFPOST