Sono passati sei mesi, il periodo di prova è finito

Governando si impara, forse. Romano Prodi confidò di aver provato, nei primi mesi della sua esperienza a palazzo Chigi, un senso di disagio o persino di inadeguatezza e di averlo superato «con tanto lavoro alla scrivania e chiedendo consiglio alle persone sagge». Si può e si deve far tesoro dei propri errori. Ne fece Prodi. Ne fecero anche altri suoi successori. È un modo di dire questo — far tesoro dei propri errori — assai calzante e attuale. Specie quando si parla dei necessari aggiustamenti alla manovra per scongiurare una procedura d’infrazione europea lunga e costosa.

Anche il premier e ministri del «governo del cambiamento» si sottopongono a una sorta di apprendistato amministrativo. Come accade a chiunque di noi. Nelle piccole e nelle grandi cose. L’importante è che ne abbiano la consapevolezza. L’arroganza non aiuta mai. Quando si accompagna all’incompetenza il risultato è esplosivo. Il discorso vale, a maggior ragione, per chi aveva in odio il palazzo con tutti i suoi riti e ambiva ad aprire il Parlamento come fosse una scatoletta di tonno. Sono passati però sei mesi, il periodo di prova è finito da un pezzo. E non si può sempre dare la colpa a chi è venuto prima, pur essendo i predecessori non privi di responsabilità soprattutto nella gestione del debito pubblico. L’investitura popolare non dovrebbe far venire meno una necessaria dose di umiltà. Prezioso viatico per chi decide presente e futuro dei propri cittadini.

Nel caso del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che guida una coalizione divisa quasi su tutto, il voto non c’è nemmeno stato. E forse è meglio così: dovrebbe essere immune dalla ricerca spasmodica del consenso. Misurarsi con la propria coscienza più che con i suoi azionisti di riferimento. Immaginiamo poi che apprezzi, da uomo di fede, la prudenza (una delle virtù cardinali) come pilastro anche della saggezza di un esecutivo. E siamo convinti — o almeno ci sforziamo di esserlo — che sia un valore condiviso anche da Luigi Di Maio e Matteo Salvini. I capi politici sono loro. Insieme hanno ricevuto la fiducia della maggioranza dei votanti il quattro marzo. Ma non una delega in bianco. Non una procura per azioni temerarie. Non il nulla osta ad esporre famiglie e imprese a rischi non previsti né ponderati.

La popolarità e i sondaggi inebriano. Nessuno ne è immune. La presunzione di avere il vento della storia alle spalle o addirittura di essere prescelti dal destino mette chi governa, ma soprattutto il proprio Paese, su una china pericolosa. È un rischio capitale. Questa consapevolezza, a giudicare da troppe dichiarazioni avventate e presuntuose, è drammaticamente assente. Speriamo in un «ravvedimento operoso». La grande popolarità raggiunta dai leader in Rete, con la complicità di macchine di propaganda oliate e spregiudicate, conferisce loro la certezza di essere nel giusto. Avvolti da un grande abbraccio popolare. Baciati dalla sorte. Le critiche dei media tradizionali vengono respinte come espressioni di un establishment impaurito e reazionario. Chi non faceva, tra i giornalisti, sconti ai precedenti governi era persino considerato, esagerando, un paladino del pluralismo. Chi oggi, allo stesso modo, non perdona nulla all’attuale esecutivo è in malafede o prezzolato da fantomatici poteri forti che vorrebbero ribaltare l’esito del voto. È una condizione di «onnipotenza digitale» che spinge i leader del governo legastellato a un esercizio solipsistico e vanitoso. Non li trattiene dall’uscire fuori dalle righe, certi della comprensione generale. Li disabitua a un reale contraddittorio (quando c’è), così fastidioso nei mezzi di comunicazione tradizionali.

I social network sono una irrinunciabile arena di discussione e confronto ma anche un terreno infido di violenze verbali, non immune a una nuova e pericolosa forma di anonimo squadrismo digitale. La Rete promuove, esalta, castiga, aggredisce. Non andrebbe giornalmente «armata» da chi ha ruoli di governo, anche per difendersi da accuse ingiuste. La popolarità in Rete si acquista facilmente, ma si può perdere in poco tempo. Anche il voto è più volatile. Una caratteristica che accomuna molte democrazie liberali in quello che appare, a diversi osservatori, come l’autunno della democrazia rappresentativa. Il declino improvviso della popolarità di Macron ne è uno degli esempi. A volte bastano piccoli incidenti d’immagine a provocare slavine di consensi perduti. Anche i nostri «eroi di governo» della Rete, abituati a scambiarla come un balcone affacciato sull’umanità, così sprezzanti nei confronti della libertà di stampa, senza la quale non sarebbero mai esistiti, dovrebbero riflettere su come sia facile acquisire e perdere consensi in questa fase convulsa e tormentata. Buon senso e moderazione fanno pochi like. Ma sono, mai come in questo momento, così necessari al Paese e distinguono i governanti veri dagli arruffapopoli irresponsabili.

CORRIERE.IT

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