Sciogliere i nodi del Sud
Sono molti quelli che continuano a fissare il dito anziché alzare lo sguardo alla luna. Sono gli afflitti da politicismo acuto, quelli che credono che tutto si riduca a ciò che, ogni giorno, fanno e dicono Salvini, Di Maio, Conte, Grillo, Martina, Berlusconi, eccetera. Che cosa indicano gli equilibri politici nati dalle elezioni del 4 marzo scorso? Che cosa suggeriscono i tira e molla su reddito di cittadinanza, pensioni, grandi opere? Che cosa lascia intendere la decrescita economica in atto? Tutto ciò fa pensare, a parere di chi scrive, che la divisione, il divario fra il Nord e il Sud del Paese — un problema per troppo tempo rimosso — ci stia ora esplodendo in faccia. Fin quando durerà il governo giallo-verde le tensioni saranno tenute sotto controllo grazie alle normali (normalissime) lotte per la spartizione delle risorse all’interno della coalizione di maggioranza. Ma quando il governo cadrà, quando quel Sud che ha votato massicciamente 5 Stelle alle ultime elezioni, non si sentirà più rappresentato nelle posizioni di comando, allora sarà difficile trovare un punto di mediazione fra le parti di Italia che chiedono più crescita, più sviluppo e le parti che, con rassegnazione, chiedono solo ridistribuzione delle risorse esistenti. È vero: i sondaggi indicano la Lega come potenziale, irresistibile, partito pigliatutto (a scapito dei 5 Stelle ma anche di ciò che resta di Forza Italia) pure al Sud ma mi permetto di restare un po’ scettico. Per lo meno tengo ferma la fondamentale distinzione fra «intenzioni di voto» e voti veri. In ogni caso, penso che se davvero la Lega avesse in futuro un successo elettorale nel Sud, si tratterebbe comunque di un successo effimero, transitorio.
Sembra improbabile che possa ricostituirsi davvero un solido e stabile federatore (come furono per decenni la Dc e per alcuni anni Forza Italia e anche , ma solo in parte, il Pd) capace di tenere insieme il Nord e il Sud.
La ragione è piuttosto semplice. L’esistenza di un vero federatore era possibile quando esistevano plausibili aspettative, speranze non campate in aria, di riuscire, prima o poi, a unificare economicamente e socialmente il Paese: un sogno che ha orientato e condizionato la politica e le sue scelte dall’unificazione d’Italia in poi. Con tanti grossolani errori, certamente. Con fallimenti politici, a loro volta facilitati da letture sbagliate delle condizioni del Paese e del Sud in particolare. Ma il sogno c’era e alimentava idee e progetti a ripetizione (si pensi alla grande stagione, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, del pensiero e degli studi meridionalisti). Le tradizionali politiche stataliste, assistenziali e clientelari erano sempre massicciamente presenti ma, per lo meno, dovevano fare i conti con una insistente domanda di modernizzazione e di sviluppo (e con politiche che qualche volta riuscivano, almeno in parte, a soddisfare quella domanda). Era una combinazione (tradizionale assistenzialismo più spinte allo sviluppo) che comunque contribuì a trasformare nel corso dei decenni l’Italia meridionale. Ma il «motore» di ciò che di buono portò al Sud tale trasformazione era alimentato da quel sogno e da quei progetti. Tutto questo è finito da un pezzo, il sogno si è infranto, nessuno più ha progetti o idee. Per questo il «cambiamento» proposto dal governo del cambiamento è solo, per quanto riguarda il Mezzogiorno, la stanca riproposizione di statalismo e assistenzialismo senza che ci sia più qualcosa a bilanciarne il peso e a contrastarne gli effetti.
Forse i buoi sono scappati definitivamente dalla stalla, forse si sono sprecate, nel corso del tempo, troppe occasioni e ormai non è più possibile rimediare. Forse bisognava tempo addietro contrattare con l’Europa un piano per il Sud che permettesse di farne un’area a bassa o nulla tassazione capace sia di favorire le forze imprenditoriali meridionali sia di attirare investimenti esteri. Forse, ancora, hanno ragione quelli che pensano che la combinazione fra riorganizzazione del Paese in senso autenticamente federale e un definivo stop ai trasferimenti di risorse dalle regioni ricche a quelle povere, avrebbe liberato energie, spinto le componenti migliori della società meridionale a rimboccarsi le maniche sfruttando ogni possibile occasione di innovazione e di crescita. Forse, infine, hanno ragione quelli che pensano che, una volta garantite alcune condizioni minime di welfare, lo Stato avrebbe dovuto concentrare la sua azione al Sud quasi esclusivamente nel contrasto alla criminalità organizzata. Giusto a proposito: chi combatte i termovalorizzatori nel Sud in nome della difesa dell’ambiente, danneggia l’ambiente (restano le discariche) e fa un favore alle mafie che sulle discariche possono continuare a lucrare. Comunque sia, ora siamo qui e, nel breve-medio termine, non sembra proprio che ci sia molto da fare per modificare una situazione così difficile.
La ragione di fondo che induce al pessimismo è che, di sicuro, non sarà la politica nazionale (in nessuna delle sue componenti) che, autonomamente, potrà fare qualcosa di buono per il Sud. È solo dalla società meridionale che un giorno potrebbe partire un movimento capace di rimettere in moto lo sviluppo (sia pure con tutta l’attenzione del caso alle specificità della società meridionale) e di prendere finalmente le distanze da una interpretazione rancorosa del passato e del presente tuttora dominante la quale genera irresponsabilità: quella che nega i vizi della società meridionale nascondendoli dietro al risentimento e alla pretesa di «risarcimenti» da un Nord a cui si attribuisce ogni colpa per i mali del Sud. Senza un movimento di tal fatta che sorga spontaneamente (ma del quale oggi non c’è traccia) è impossibile che la classe politica nazionale sia in grado di proporre e fare scelte politiche intelligenti per il Mezzogiorno. Nell’attesa, possiamo solo constatare che il più antico e persistente dei problemi italiani, come altre volte nella nostra storia, si è di nuovo aggravato e condiziona pesantemente la nostra vita pubblica.
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