Manovra, l’azzardo fallito con l’Europa e il rischio di una stretta fiscale
La recente propensione al dialogo mostrata dal governo testimonia che ci sono soglie di sofferenza, con lo spread sui 320-330 punti, oltre le quali l’esecutivo italiano non ha voluto spingersi. Ma anche se verrà fatta marcia indietro sul budget, rischia di esser tardi”, ha spiegato durante il suo intervento. A margine dell’evento, Giani dettaglia i termini del problema: “A inizio ottobre, il deficit tendenziale – dando già per scontata la disattivazione delle clausole di salvaguardia sull’Iva – era stimato intorno al 2%. Ora che la crescita ha invertito il segno e il caro-spread ha stabilizzato la spesa per interessi a livelli più alti del previsto, il deficit/Pil è da solo arrivato al 2,4% ‘programmatico’ indicato dal governo, senza considerare gli altri interventi previsti dalla Manovra”. Ovvero, laddove ci avrebbero dovuto portare le spese per reddito di cittadinanza e quota 100, siamo arrivati da soli con il rallentamento del Pil e il costo più alto del nostro debito, alimentato dalle incertezze politiche. “Nei fatti, correggere ora la Manovra verso il 2% di deficit/Pil vuol dire con ogni probabilità darle una intonazione fiscale restrittiva, con quel che comporta in termini di rallentamento di una economia già alle corde”.
Proprio il recente campanello d’allarme suonato dall’Istat, che ha diffuso il dato di un Pil a -0,1% nel terzo trimestre, è indicativo. La stima di Citi è che l’Italia cresca dello 0,5% il prossimo anno, contro il +1,5% indicato dal governo ed evidentemente da rivedere. “Nella frenata del terzo trimestre colpisce il calo dei consumi, dai quali ci si poteva invece aspettare un supporto visto che il reddito da lavoro sta salendo, seppur lentamente, e il trend generale dell’occupazione rimane in fase positiva”. Per Giani, insomma, molti riflessi della tensione accumulata negli ultimi mesi si devono ancora palesare: “Nel quarto trimestre vedremo il riflesso dei timori del settore produttivo per le scelte politiche: gli indicatori di fiducia, così come i Pmi, sono negativi e porteranno a un calo dell’attività”. Per l’economista è vero che nell’attuale livello dello spread tra Btp e Bund (intorno a 300 punti, anche se in calo nelle ultime giornate per la nuova disponibilità a trattare italiana) “è già incorporata l’apertura di una ormai altamente probabile procedura per deficit eccessivo nell’ambito della regola del debito”. Ma siccome “non credo che il differenziale di rendimento tra Btp e Bund scenderà ancora di molto, prima o poi questa tensione si vedrà anche sul fronte del credito bancario”.
Il ritorno dell’m&a, ma non sotto le alpi
Il caso-Italia si inserisce in un contesto dominato dai “rischi geopolitici, in primis quello di una escalation nella tensione commerciale tra Usa e Cina che potrebbe generare un rallentamento economico”, come ha avuto modo di sottolineare Phil Drury a capo dell’area Emea di banking, capital markets e advisory. Ma se a livello globale ci sono anche spunti positivi, per gli addetti ai mercati finanziari, il Belpaese rischia di rimanere tagliato fuori da questi ambiti. Citi stima che la crescita globale resterà sostenuta (dal 3,3 del 2018 al 3,2 per cento l’anno prossimo) e con indicatori di fiducia che nelle grandi economie fuori dall’Europa non si sono scostati poi di molto dai recenti massimi. Dopo le recenti vendite, le valutazioni delle azioni europee restano a livelli elevati ma offrono spunti di possibile crescita maggiori rispetto a quelle americane.
Luigi de Vecchi, che presiede la divisione banking, capital markets e advisory in Europa, Middle East e Africa, ha spiegato come l’attività di fusioni e acquisizioni (m&a) sia proiettata verso il terzo miglior anno di sempre. Secondo le stime di Citi, infatti, il 2018 si dovrebbe chiudere sopra i 4.300 miliardi di dollari di transazioni annunciate, in crescita di un terzo rispetto all’anno scorso e non molto distante dai picchi del 2007 e, a seguire, del 2015. Anche in Europa i dati parlano di un netto rialzo. “Dal mondo globale e unificato che abbiamo visto fino all’anno scorso, il ritorno del protezionismo sta spingendo i deal di nuovo in una dimensione regionale, più che globale”, ha annotato de Vecchi.
Altro fattore centrale, “l’attività dei regolatori sta impattando sul tempo necessario a chiudere le operazioni, creando qualche incertezza sul quadro globale”. Il problema è che di questo dinamismo non si ha traccia sotto le Alpi, tanto che l’attività di m&a in Italia – al netto del caso Essilor-Luxottica – è rimasta a livelli dimezzati. La sensazione diffusa è che il Paese sia ora fuori dai radar degli investitori. Senza i colossi che possono vantare altri sistemi e con un volto minaccioso per l’Europa, la scommessa diventa su quanto possa durare questo isolazionismo prima di inceppare del tutto il motore economico.
REP.IT
Pages: 1 2