Una nuova prova del fuoco per Draghi: salvare l’eurozona senza il Qe

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Fonte: Bloomberg

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mettono in prospettiva lo stato dell’arte: le condizioni finanziarie e le prospettive di crescita sono chiaramente al palo, le ultime addirittura in calo costante dall’estate del 2017. Il terzo grafico, poi, appare addirittura sconfortante, se si pensa che a fronte di condizioni macro e di mercato da crisi quasi conclamata, la Bce ha espanso in maniera decisamente significativa il suo stato patrimoniale. Appare ironico in tal senso, se la situazione non fosse terribilmente seria, che proprio nel pieno di una situazione simile e del caos francese, la Corte Europea – dopo aver dato luce verde a Londra per recedere unilateralmente dal Brexit, se decidesse di volerlo fare – abbia confermato proprio la liceità, in punta di mandato statutario, degli acquisti obbligazionari della Banca centrale europea messa in dubbia da un gruppo di funzionari tedeschi.

Ma anche in questo caso, parliamo di un mondo che pare lontano quanto il paleolitico, visto che a fare sensazione è anche il silenzio tombale proprio di Bundestag e Bundesbank di fronte all’incertezza imperante. Pil negativo del terzo trimestre, mercato dell’auto in sofferenza crescente e Deutsche Bank che flirta quotidianamente con i minimi storici al Dax paiono aver spento un po’ la vis polemica teutonica. Insomma, di fronte a questo scenario, Mario Draghi formalmente sarebbe chiamato a sancire la fine del Qe, pur avendo già preannunciato tassi bassi ancora per un po’ e politica espansiva di supporto che proseguirà anche nel 2019.

E questo appare il nodo: come proseguirà, per quale controvalore e per quanto. Perché la situazione che si trova ad affrontare il numero uno della Bce appare ogni giorno di più tremendamente simile a quella sostanziata dal cosiddetto “paradosso del Comma 22”, ovvero l’apparente libertà di scelta che si pone di fronte ai protagonisti del libro distopico di Joseph Heller ma che, in realtà, si traduce all’atto pratico in un’unica e obbligata possibilità concreta.

Come i piloti del libro, i quali possono essere esentati dalle missioni aeree se si dichiarano pazzi ma facendolo affermano in realtà di non esserlo, così Mario Draghi appare paradossalmente libero fra varie opzioni ma in realtà costretto a muoversi entro i confini di un presupposto imprescindibile: senza un qualche supporto sostanziale, l’eurozona non regge. Può scegliere come ma non può scegliere di scegliere altra via, pena vanificare del tutto quel poco di ripresa garantita attraverso trimestri di acquisti obbligazionari, sovrani e corporate: quantomeno, teniamo in vita il cuscinetto di sicurezza per ammortizzare il primo impatto recessivo.

E questi altri due grafici

Fonte: Reuters

Fonte: Zerohedge

parlano molto chiaro. Il primo ci mostra quale sia la prima criticità sistemica della fine del Qe, ovvero l’enorme ammontare dei rimborsi relativi agli acquisti compiuti dalla Banca centrale sull’orizzonte dei prossimi 10 mesi, come si può vedere concentrati in maniera predominante rispetto al programma PSPP, ovvero quello legato ai titoli di debito pubblico, come i nostri Btp.

Il secondo grafico, poi, amplia l’orizzonte e svela il livello globale di dipendenza da Qe del mondo intero nel post-Lehman: ad oggi, infatti, il mercato addirittura prezza una Bce più “falco” della stessa Fed a livello di aspettative di rialzo dei tassi nel 2019, questo nonostante la Federal Reserve sia già in operatività di normalizzazione del costo del denaro da trimestri e abbia formalmente confermato la sua intenzione di proseguire. Insomma, siamo di fronte a un colossale cambio di narrativa della politica monetaria, oltretutto sostanziatosi nell’arco di appena due mesi.

E qualcosa lo conferma indirettamente, al netto anche dei toni decisamente meno bellicosi emersi dalle minute dell’ultimo incontro del Comitato monetario della Federal Reserve e soprattutto dal Beige Book, il quale ha sottolineato un secondo cambio di paradigma. Se infatti in ottobre era stato raggiunto il record di citazioni della parola “tariffa” all’interno del punto economico come criticità da affrontare e sfida alla politica monetaria impostata, la nota di novembre appena resa nota ha visto un calo a 39.

In compenso, per giustificare il clima di rallentamento sono entrate in gioco variabili che finora erano rimaste nell’ombra, quasi si avesse timore anche solo a citarle: rallentamento dell’economia interna, aumento dei tassi di interesse e contrazione del mercato del lavoro, causato anche dal graduale affievolimento dell’ottimismo economico. Insomma, qualcosa è cambiato anche Oltreoceano, il grande driver della turbolenza di mercato iniziata ad ottobre e ora sostanziatasi in una generale accettazione di un mondo che sta flirtando con dinamiche di fine ciclo e, di fatto, pre-recessive.

Ed ecco che questi due grafici

Fonte: Gallup

Fonte: Bloomberg

aprono degli scenari interessanti per l’immediato futuro. Se infatti il primo ci mostra come la volontà di spendere per regali e feste natalizie degli americani – registrata ogni anno da Gallup nel mese di ottobre – si sia attestata a 885 dollari di media, meno dei 906 dollari record dello scorso anno ma il massimo raggiunto in ogni altro mese di ottobre dalla recessione in poi, il secondo mostra il risultato delle 14 previsioni elaborate da Bloomberg in base al tracciamento del sentiment di 14 grandi istituzioni finanziarie.

Bene, al 30 novembre scorso, la media di previsione dava lo Standard&Poor’s 500 destinato a salire dell’11% a quota 3.056 punti entro la fine del prossimo anno. E nonostante i tonfi di ottobre abbiano inciso sullo scenario, questo risulta il più ottimistico dall’inizio del mercato rialzista nel 2009. Oltretutto, con i pareri raccolti in pieno periodo di clientela retail spaventata e intenta a prendere beneficio di quanto ottenuto (o non ancora perso) e gli hedge funds impegnati nella rotazione al di fuori del posizionamento su grandi nomi e verso portafogli più difensivi.

Insomma, il dato relativo alle spese natalizie parla chiaramente di un classico last hurrah prima di una crisi che si vede ormai come inevitabile, mentre Wall Street vede all’orizzonte il proverbiale silver lining: la smart money sa qualcosa che noi comuni mortali ancora ignoriamo? Sarà la Fed in versione “colomba” a rivitalizzare il mercato l’anno prossimo? Magari in combinata con un rilassamento delle tensioni commerciali con la Cina e con una Bce che non abbandoni del tutto il proprio supporto economico e finanziario all’eurozona?

C’è poi un ultimo aspetto della sincronizzazione forzata delle Banche centrali in epoca di espansione globale di cui Mario Draghi dovrà tenere conto, ovvero questo:

Fonte: Zerohedge

Fonte: Zerohedge

la patria del quantitative easing, il Giappone dell’Abenomics e della tentazione per la Bank of Japan di entrare in modalità helicopter money, non solo ha appena visto il Pil del terzo trimestre contrarsi a ritmo peggiore del previsto, ovvero un -2,5% trimestre su trimestre annualizzato contro le attese di -2% ma, soprattutto, è stato il crollo delle spese per investimenti, il cosiddetto CapEx a -2,8%, a spaventare, visto che si tratta del peggior declino di quella voce fondamentale a livello trimestrale dalla crisi finanziaria del 2008.

E con Tokyo che attende il dato della crescita del quarto trimestre per scoprire se sarà entrata ufficialmente in recessione tecnica, il secondo grafico ci mostra dopo quali sforzi di monetizzazione del debito (e non solo, visti gli acquisti diretti di equities attraverso ETF, uno dei veri motori dei rialzi del Nikkei) si sia giunti a questi risultati macro sconfortanti: ad oggi, il bilancio della Bank of Japan è maggiore del Pil nominale annualizzato del Paese. Davvero la Banca centrale nipponica, dopo aver già diminuito il controvalore dei suoi acquisti, da aprile scenderà ancora e in maniera più netta e strutturale? Può permetterselo, di fronte a questo quadro economico e al fantasma della deflazione di ritorno e della lost decade?

Ecco il contesto mondiale di fronte al quale, oggi Mario Draghi dovrà decidere il da farsi (di fatto, la decisione è già nota al board dal 6 dicembre scorso, data della riunione tecnica operativa, quella a porte chiuse e senza comunicazioni alla stampa). Ufficialmente e stando alla narrativa, staccando la spina del Qe e inventandosi trucchi da illusionista per farlo proseguire in altra forma e senza dare troppo nell’occhio. Insomma, il paradosso del Comma 22: non c’è via d’uscita, almeno per ora, dalla dipendenza dei mercati dal denaro a costo zero e a getto continuo della Banche centrali. Pena, il crollo dell’intero castello di sabbia del Qe globale. E il muro della Bce, in tal senso, è portante, non fosse altro perché opera da architrave del mercato più ricco al mondo, quello dell’eurozona e di una valuta che è a seconda dopo il dollaro per denominazione del volume di scambi.

Good luck, mister Draghi. Pare che per la seconda volta nel giro di pochi anni tocchi ancora a lei salvare il mondo. Ce la farà?

BUSINESS INSIDER

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