Informazione online: il «tutto gratis» ha un prezzo altissimo

In gioco c’è la verità, e la verità ha un costo

In gioco c’è la verità, e la verità ha un costo. Partiamo da qualche numero: in Italia, dal 2007 (l’anno in cui tutto è cambiato con l’arrivo dell’iPhone e la diffusione di Facebook) al 2018 le vendite di copie cartacee dei giornali sono crollate: dai 6,1 milioni di copie giornaliere di settembre 2007 ai 2,6 milioni (incluse le copie digitali) dello stesso mese del 2018. Nel giro di dieci anni, il valore della pubblicità su tutti i media ha perso 1,3 miliardi e la fetta della torta a beneficio della stampa è passata dal 31 al 13 per cento.

Le due principali fonti di ricavi sono calate

Le due principali fonti di ricavi quindi sono diminuite. Molteplici le cause, ma la principale è Internet, sia perché ha fatto irruzione nelle nostre abitudini di fruizione dei contenuti, sia perché è stata individuata dagli editori come una piazza in cui provare a rivolgersi a un pubblico più ampio con un prodotto gratuito. Gli utenti sarebbero stati così numerosi da garantire con i loro clic una sostenibilità economica basata solo sulle entrate pubblicitarie. Inoltre il loro incontro con il marchio avrebbe potuto portare alla versione cartacea nuovi lettori paganti. Questa era l’idea, all’inizio. In effetti i numeri degli accessi sono enormi: gli utenti che ogni giorno consultano almeno un sito di informazione online superano i 12 milioni.

Dove si inceppa il meccanismo?

Dove si inceppa il meccanismo? Innanzitutto il mercato della pubblicità online non cresce rapidamente come ci si aspettava. Negli ultimi dieci anni è passato da 950 milioni a 2,9 miliardi di euro.

Sembrano molti, ma la realtà è un’altra: il 75% finisce nelle casse dei cosiddetti Over the Top, ovvero Google e Facebook. Sono loro che hanno meglio saputo interpretare e condizionare la rivoluzione della vendita degli spot in tempo reale con aste automatiche in Rete. E sono sempre Google e Facebook che beneficiano della circolazione di notizie online sulle proprie piattaforme, motivo per cui, per esempio, la legge sul diritto d’autore in discussione a Bruxelles vuole imporre loro un pagamento per l’utilizzo delle anteprime delle notizie.

Nessun sito di news sta in piedi con la sola pubblicità

Ricapitolando: gli incassi che arrivano dall’online non bastano, contemporaneamente l’accesso gratuito corrisponde (e contribuisce) ad un indebolimento della carta. Non solo, la presenza in Rete di chi fa informazione è sempre più impegnativa e, in quanto tale, dispendiosa. Sia perché impone una redazione ampia (una ventina di persone regolarmente contrattualizzate, solo per il presidio delle breaking news dell’online) aperta 24 ore 7 giorni su 7. Sia perché è difficile individuare una modalità di lavoro coerente con il vecchio quotidiano di carta, che costituisce ancora oggi circa il 75% dell’intero fatturato di un giornale. Ancor più difficile far quadrare i conti per le numerose testate online che non hanno alle spalle un quotidiano di carta. La concorrenza infine non premia la qualità.

Come funzionano gli algoritmi di Apple e Google

Una delle fonti di traffico è Apple News (la selezione di notizie proposta dall’iPhone). Funziona così: pesca automaticamente le pagine più cliccate in quel momento. Capita molto spesso che non scelga la fonte della notizia, ma un portale su cui è stata riproposta, e che godrà del beneficio dei clic e delle conseguenti entrate pubblicitarie. In sostanza un articolo riscritto e magari anche un po’ manipolato, con il solo costo dello stipendio di un redattore seduto al computer, può valere più della notizia originaria scovata, verificata e confezionata dall’inviato del sito che l’ha pubblicata inizialmente e che deve farsi carico di spese più consistenti, legate al tempo necessario e ai costi del viaggio. Anche quando si cerca una notizia su Google non c’è garanzia che il primo risultato sia l’articolo fatto dall’inviato andato sul posto. Potrebbe benissimo essere una ripresa «fatta in casa», ma con un utilizzo di parole chiave «ad effetto» che la posizionano meglio sul motore di ricerca.

Una qualità sempre più bassa

La somma di questi fattori porta ad avere sempre meno inviati, e a pagare sempre peggio i collaboratori. Oggi incassano cifre inferiori ai 15 euro ad articolo. È evidente che se un freelance di Milano deve scrivere un servizio su un incidente a Varese, non spenderà 12 euro di treno per verificare sul posto, ma si limiterà a fare una telefonata. In sostanza nessun sito di news (sono almeno 150) riesce a stare in piedi con la sola pubblicità: per galleggiare sono obbligati a produrre «articoli su commissione» e a rincorrere gli algoritmi con titoli fuorvianti. Il risultato finale del «tutto gratis» è una qualità sempre più scarsa. Un problema che coinvolge l’informazione in tutto il mondo.

La verità ha un costo

Negli Stati Uniti il New York Times ha puntato sulla qualità, e al sito si accede solo abbonandosi: i profitti hanno superato quelli della pubblicità online con 3 milioni di sottoscrittori. Nel Regno Unito il Guardian, per tenere alta la qualità, chiede «un sostegno» ai suoi lettori digitali: hanno aderito in più di un milione di persone. In Italia la maggior parte dei quotidiani ha un paywall: chi ha un muro oltre il quale non si può consultare gli articoli gratis, chi differenzia tra articoli gratis e a pagamento. Ma gli utenti non sono entusiasti: preferiscono leggere senza pagare nulla. Domanda: se la notizia vale zero, che notizia è? In conclusione, per tutti i siti, ergere un paywall, o forme di abbonamento è l’unico (e sano) modo per assicurare un futuro all’informazione. E alla verità, che conta, e costa. A quel punto saranno gli utenti, e non gli algoritmi, a premiare i migliori.

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