La forza nascosta dei vincoli esterni

E facciamo parte dell’Europa perché dalla solidità della moneta comune che portiamo in tasca dipende il valore dei nostri salari e dei nostri risparmi. Sul piano politico questo legame funziona talvolta come una specie di freno automatico quando alla guida c’è un autista distratto, incapace o pericoloso: il nostro governo, per esempio, ha appena votato a favore delle proroghe delle sanzioni alla Russia e della missione Sophia, contro le quali fino a ieri tuonava. Ma, allo stesso tempo, l’interdipendenza ci aiuta: la crisi francese e il caos inglese hanno reso certamente più conveniente per Bruxelles e più agevole per noi raggiungere un accordo sul bilancio.

C’è però anche un’altra ragione — più difficile a dirsi — per cui dovremo congratularci con il nostro governo per aver accettato il compromesso, e in particolare con il premier Conte e i ministri Tria e Moavero, che hanno svolto la parte più efficace del negoziato. E questa ragione è che il «vincolo esterno» dell’Europa — secondo la felice intuizione di Guido Carli — ci difende anche da noi stessi. Ci protegge innanzitutto dai nostri politici, gli attuali e i predecessori, che sempre hanno la tentazione di spendere qualche miliardo mettendolo sul conto dei contribuenti. E ci protegge anche dal prevalere della legge del più forte, da quel coacervo di egoismi, corporativismi e clientelismi che tendono a dirottare risorse a scapito dell’interesse generale. Potrà sembrare un paradosso dirlo di questi tempi: ma la regole comuni dell’Unione ci difendono anche dalla ingordigia di certe élite alle vongole.

Dunque, chiunque governi, il nostro interesse nazionale è di gran lunga meglio servito restando dentro le regole dell’Unione e nel mercato comune più grande del mondo; nei sondaggi gli italiani mostrano di averlo capito benissimo, e l’hanno fatto capire anche a chi li rappresenta, mitigandone le illusioni autarchiche. Mi sbaglierò, ma il governo giallo-verde ha cominciato a cambiare strada sulla manovra dopo che l’asta dei Btp Italia, destinata alle famiglie, è andata male.

Sarebbe però un errore concludere che i vertici europei siano un pranzo di gala dove a noi spetti solo di comportarci educatamente. Sono piuttosto un’arena nella quale si confrontano 27 interessi nazionali diversi e talvolta divergenti. Ma, proprio per questo, bisogna selezionare gli obiettivi che si intende raggiungere e costruire alleanze per ottenerli. Agitare i pugni non solo è inutile, come dimostra la vicenda del deficit al 2,4% annunciato da un balcone; ma è anche controproducente, se genera isolamento. Mentre minacciavamo sfracelli sulla manovra, per esempio, abbiamo dovuto incassare in silenzio due duri colpi al nostro interesse nazionale: l’ennesimo rinvio della garanzia europea sui depositi bancari, e la sepoltura definitiva del programma di ricollocazione all’interno della Ue dei rifugiati arrivati in Italia e in Grecia.

Accettando di chiudere la trattativa sugli zerovirgola, il nostro governo fa cadere anche l’alibi di chi dice che è l’Italia il problema dell’Europa. Non è così. L’Unione è corrosa da un male molto più profondo. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, lo scambio tra l’unificazione tedesca e il marco tedesco, che portò alla nascita dell’euro, non ha prodotto l’Europa che speravamo. La convergenza economica e politica delle periferie verso il centro carolingio non ha funzionato ovunque, e la querelle sul deficit italiano è parte di questa divergenza. Così oggi di Europe ce ne sono almeno tre: quella del rigore nordico, quella indisciplinata e mediterranea, e quella illiberale che sta sorgendo a Oriente. Se c’è qualcuno al governo che ha davvero voglia di dar battaglia per costruirne una nuova e migliore, l’occasione è d’oro. Ma prima bisognava mettere fine alle battaglie sbagliate, e perse in partenza.

CORRIERE.IT

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