Prendersi cura del Paese
Non c’è settore del nostro patrimonio collettivo che non soffra di questa cultura del rinvio, del trasloco dei soldi spostati da un’emergenza all’altra arrancando sempre dietro l’ultimo trauma, dell’approssimazione con cui ogni disastro si diluisce nella quotidianità smemorata. Dove un cantiere aperto perché non ricapiti più una tragedia ormai rimossa viene vissuto come un fastidio… Dicono tutto i dati riassunti da Mario Sensini sui terremoti ad Amatrice e gli Appennini del 2016: 70 mila case inagibili in un territorio vastissimo, 500 ricostruite, 10 mila domande impantanate in una burocrazia più fangosa che mai, 13 miliardi a disposizione alla Cassa Depositi e Prestiti, solo 293 milioni spesi. Colpa del labirinto di regole e regolette, certo. Ma anche di chi, negli anni, spesso per motivi non nobili, non ha manco provato a spiegare ai cittadini colpiti da un terremoto la necessità di investire davvero negli interventi antisismici e non nelle mattonelle signorili. Si pensi al «Sismabonus», la detrazione fiscale tra il 50 e l’85% della spesa fatta per il rafforzamento sismico entro un tetto di 96 mila euro: «nonostante i disastri continui, questo Sismabonus non lo sta usando quasi nessuno», hanno scritto Milena Gabanelli e lo stesso Sensini sul Corriere: nel 2014 «sono stati spesi 17 miliardi per le ristrutturazioni, 3,3 miliardi per la riqualificazione energetica e appena 240 milioni per la messa in sicurezza sismica».
Un problema che ha spinto un gruppo di scienziati (Crespellani, De Marco, Guagenti, Guidoboni e Petrini), a denunciare la «sconfitta culturale» della innovazione che, per quanto ispirata a nobili motivi, ha finito per essere «staccata dal contesto fisico e sociale del Paese, che non distingue le zone ad alto rischio sismico e quelle a basso rischio» fino a diventare «discutibile sul piano della ottimizzazione delle risorse». Una sconfitta in linea con altre. Come la sordità della cattiva politica, bianca, rossa, verde o viola che fosse, davanti all’obbligo per un Paese come il nostro, di avere una Carta geologica capillare. Bene, spiega in una audizione al Senato il geologo Paolo Messina, direttore al Cnr, il progetto di una carta «a scala 1:50.000 nacque nel 1971» ma da allora, su 652 fogli geologici, ne «sono stati completati 254, pari a circa il 40% dell’intera copertura». In quasi mezzo secolo. È questa la pena che ci tiriamo dietro. L’anagrafe sulla sicurezza degli edifici scolastici (per oltre il 41% delle in zona rischio di «terremoti fortissimi o forti») ancora incompleta dopo 22 anni e tanti soffitti crollati sui ragazzi. Le strade della capitale d’Italia così malmesse e tappezzate da buche da causare una miriade di incidenti stradali anche mortali. Inondazioni assassine come nel villino di Casteldaccia costruito abusivamente sotto il naso delle autorità locali per anni indifferenti alle illegalità… Acquedotti così trascurati da perdere nel 2017 (dati Accadueo) 4,9 miliardi di metri cubi di acqua su 8,3 arrivati alle reti comunali…
Non c’è cura per il territorio. Per questo paghiamo un prezzo altissimo. Che potrebbe diventare apocalittico il giorno in cui una catastrofe naturale si andasse a sommare alla più scellerata gestione di alcune aree particolarmente esposte. Quando «deciderà di dare avvio al suo prossimo ciclo eruttivo, dopo quello durato tre secoli dal 1631 al 1944», ricordava quella relazione del professor Mottana, «comincerà con un’esplosione, non priva di un qualche preavviso, ma immensa e devastante». Tempo di fuga stimato «in centinaia di secondi (pessimisticamente) oppure in ore (ottimisticamente)». E «ci saranno ben più dei 3.000 morti del 1631, eppure non accadrà che il Vesuvio sia scomunicato, come avvenne allora su richiesta delle autorità vicereali spagnole! Viene piuttosto da domandarsi: di chi sarà la colpa di queste morti? Perché sono state costruite case in luoghi tanto pericolosi? Perché la rete stradale è insufficiente a evacuare tutti gli abitanti?». Domande riprese anche tre settimane fa, a Napoli, dai geologi riuniti dall’istro-americano Flavio Dobran, che invoca «l’obbligo di educazione al rischio vulcanico in tutte le scuole della Campania». Immaginiamo la risposta: «Ihhh! Portiamo iella?».
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