Mario Draghi all’ultimo miglio: ma quale sarà la sua eredità?
Draghi alla prova del dopo-Qe
Sotto l’egida di Draghi, ha scritto Luciano Canova su Valori, la Bce ha investito 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani. Una cifra sufficiente a consolidare definitivamente l’euro nel lungo periodo? Sulla risposta affermativa a questa domanda si giocherà il futuro giudizio storico su Mario Draghi.
Difficile trarre conclusioni definitive, ma nel rispetto del dovere di cronaca, sarà interessante avviare un ragionamento sul ruolo giocato dal banchiere italiano in questi anni difficili per l’economia internazionale. L’opera di Draghi sarà analizzata in relazione, soprattutto, al giudizio sulla sua principale mossa di politica monetaria.
Essa ha sicuramente avuto il merito di rompere l’egemonia dei “falchi” del rigore sui conti e dell’austerità capitanati dalla Germania di Angela Merkel (“deprimente constatare che se la maggioranza della Bce non avesse seguito le decisioni di Mario Draghi, ma le obiezioni dei tedeschi, a quest’ora l’euro non esisterebbe più”, ha ammesso l’ex Ministro Joschka Fischer) e Draghi la capacità di presentarsi come un decisore di politica economica autorevole e credibile, portatore di un vero progetto di lungo periodo.
Tuttavia, la crisi borsistica degli ultimi mesi segnala come il Qe europeo abbia avuto difficoltà a trasmettersi all’economia reale e come buona parte del diluvio di liquidità abbia alimentato l’inflazione dei mercati finanziari che ora segnalano il loro surriscaldamento con uno sgonfiamento preventivo. Il limite d’azione della Bce in questo contesto è stato ulteriormente rafforzato dalla ristrettezza del suo raggio d’azione, sebbene Draghi si sia, come ha detto Paolo Savona, “procurato poteri che non avevamo previsto” per ovviare al deficit di credibilità e leadership di buona parte delle istituzioni comunitarie.
“Whatever it takes”: e Draghi divenne un leader
Mario Draghi aveva iniziato la sua tenuta della Bce in parziale continuità con il predecessore Jean-Claude Trichet, a cui si era associato nella famosa lettera inviata al governo Berlusconi nell’estate 2011 che aveva contribuito a una generale delegittimazione dell’esecutivo italiano, ma in pochi mesi riuscì a virare rispetto alla debole gestione di Trichet, che inopinatamente nel 2011 aveva optato per varare due rincari consecutivi del tasso di sconto che avevano prodotto conseguenze infauste per i Paesi più indebitati.
Il cambiamento, rispetto alla gestione Trichet, sarebbe partito dalla stessa postura del direttore dell’Eurotower. Un vero e proprio spartiacque, in questo contesto, è stato rappresentato dall’intervento di Draghi alla Global Investment Conference tenutasi a Londra il 26 luglio 2012, in mesi che vedevano la valuta unica sbandare sotto i colpi della speculazione finanziaria e l’inefficienza decisionale delle istituzioni comunitarie.
Draghi pronunciò poche, semplici parole destinate a segnare gli anni a venire: “Nell’ambito del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza”. Tutto il necessario: whatever it takes. Tre parole che non furono seguite da alcuna azione immediata, ma che bastarono nel breve periodo a decapitare il circolo vizioso della speculazione.
Non c’era alcun dubbio sull’interpretazione: la Banca centrale europea avrebbe vigilato indipendentemente dalle inefficienze della risposta politica e guidato, di fatto, una risposta alla crisi finanziaria decisa e tenace. Lo spread italiano calò di oltre 50 punti nelle 24 ore seguenti al discorso di Draghi. Si può dire che sia stata l’onda lunga di quel discorso di Draghi, prima ancora delle misure concretamente approvate da Francoforte, a garantire un periodo di respiro all’economia europea nel quinquennio successivo. Solo negli ultimi mesi la spinta propulsiva del whatever it takes va esaurendosi mano a mano che crescono le incertezze sul piano aggregato.
Il bazooka di Draghi: il quantitative easing
Dopo aver impostato tra il 2011 e il 2012 il suo antesignano, il programma Ltro, dal 2015 la Bce di Draghi avviò con forza il suo quantitative easing, annunciato da Draghi al World Economic Forum di Davos a gennaio.
Il piano triennale da oltre 2 trilioni di euro ha portato a una progressiva convergenza tra i rendimenti dei titoli dei Paesi europei e a una generale riduzione dello spread tra i titoli, dei costi di finanziamento bancari e del clima di sfiducia aleggiante nelle borse europee. Ciò ha consentito una situazione di ritorno alla crescita economica, rimasta in ogni caso a livelli subottimali per le continue rigidità causate dall’incompletezza di un’architettura politico-economica eccessivamente condizionata dall’egemonia del mercantilismo tedesco finalizzato alle esportazioni, che ha rallentato la ripresa a livello aggregato.
A Draghi si deve riconoscere una visione di lungo periodo che è mancata a numerosi altri decisori dell’Eurozona; tuttavia, il programma di stimolo è rimasto sotto diversi punti incompleto o i suoi obiettivi sono stati deviati in maniera controintuitiva.
I limiti del quantitative easing
Pur espandendo oltre i 4mila miliardi di euro l’attivo complessivo della Bce, il quantitative easing ha prodotto risultati contrastanti in certi contesti. Nell’estate scorsa è stato centrato l’obiettivo di Draghi di portare l’inflazione al 2%, che se da un lato ha permesso a Francoforte di poter segnare un ulteriore punto nel programma dall’altro è stata in larga misura alimentata, negli ultimi mesi, soprattutto dai rincari energetici legati alle tensioni sui mercati internazionali delle materie prime.
Buona parte dei trilioni riversati dalla Bce sull’economia europea non hanno raggiunto l’economia reale per generare investimenti produttivi, alimentando altresì la dilatazione dei bilanci borsistici che oggi, mentre tutte le banche centrali del mondo iniziano a stringere la corda, va via via disperdendosi. Per il futuro, il politologo Roberto Marchesi ha proposto sul Fatto Quotidiano di procedere alla “riforma della Bce consentendole di intervenire a sostegno delle imprese e contro la disoccupazione con un Qe mirato a questo scopo invece che a quello più generale di sostenere la liquidità monetaria, ora meno necessario ma di cui hanno beneficiato molto di più le banche che le aziende (e per niente i lavoratori)”.
Marchesi mette in luce la debolezza della cinghia di trasmissione tra lo stimolo monetario e la crescita economica. Il governo tedesco ha invece criticato fortemente la volontà di Draghi di raggiungere un preciso target d’inflazione, causa di un’erosione del valore reale dei crediti dei suoi istituti col resto del continente ma, al contempo, ne ha beneficiato indirettamente grazie al volano garantito dalla svalutazione dell’euro alle sue esportazioni, come del resto puntualizzava già nel 2015 l’associazione Asimmetrie. In questo senso, il quantitative easing ha mancato l’obiettivo di ridurre le disparità strutturali tra i Paesi dell’Unione e l’eterogeneità economica nel contesto europeo.
Un bilancio conclusivo
In ogni caso, bisogna sottolineare che Draghi lascerà un’eredità pesante dalla quale non sarà possibile prescindere nelle future analisi delle dinamiche dell’area euro. In un contesto caratterizzato da un vuoto di leadership, il leader dell’Eurotower ha acquisito centralità nel contesto comunitario e acquisito un ruolo profondamente politico.
Ora che l’onda lunga delle misure adottate tra il 2012 e il 2015 Draghi cerca di rendere stabile lo stato di cose creato nella sua gestione, per evitare che un suo successore afferente all’ala rigorista dell’Unione possa rilanciare politiche favorevoli alle misure di austerità che tanti problemi hanno causato.
Dopo la fine del Qe, un modo per “costituzionalizzare” quanto fatto potrebbe essere il rilancio delle Tltro (acronimo di Targeted Longer Term Refinancing Operations), prestiti a tassi bassissimi per garantire liquidità al sistema del credito, e di riflesso, al mondo delle imprese, 700 miliardi di euro dei quali vanno in scadenza nei prossimi due anni. Riguardo a Draghi, invece, si specula sul suo futuro una volta finita la gestione all’Eurotower.
Draghi dopo l’Eurotower
C’è chi ipotizza una sua discesa in campo in politica, come potenziale candidato di una coalizione politica avversa all’attuale maggioranza. Ma questo francamente appare improbabile considerato gli altisonanti incarichi a cui Draghi è associato da diversi media: in futuro si prevede per lui un ruolo da candidato alla guida del Fondo monetario internazionale (la Lagarde terminerà la sua gestione nel 2021) o da presidente della Repubblica (il settenato di Sergio Mattarella terminerà nel 2022).
Segno di un prestigio che Draghi ha saputo conquistarsi mostrando capacità non indifferenti e qualità che mancano tanto al suo predecessore Trichet quanto al presidente della Commissione Juncker nell’offrire una reazione alla crisi economica capace di ingenerare un grado di fiducia che sembrava scomparso nel 2011 e nel 2012. Draghi è considerato pressoché all’unanimità l’uomo che è stato capace di salvare l’euro tra il 2012 e il 2015. Nel contesto della tempesta finanziaria, ciò corrisponde a verità.
Sul lungo periodo, solo se l’architettura comunitaria reggerà agli stress test a cui è continuamente sottoposta si potrà dare una risposta definitiva. Tuttavia, Draghi non ha e non avrebbe potuto salvare l’Unione e l’euro dalle loro contraddizioni intrinseche. Dal suo ruolo eminentemente tecnico, ha potuto condizionare le regole del gioco, non contribuire a migliorarne la codificazione. Ciò che manca, in Europa, è la politica vera. Mancano gli statisti degni di De Gasperi, De Gaulle, Adenauer. E la stessa necessità dell’Unione di aggrapparsi a Draghi per restare a galla è un sintomo di questo problema.
IL GIORNALE
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