La memoria che dà fastidio nell’Europa Orientale

di Paolo Mieli

A meno di un ripensamento dell’ultimo minuto, nella Repubblica Ceca del nazionalpopulista Milos Zeman non ci saranno il prossimo 16 gennaio cerimonie di Stato per rendere onore a Jan Palach in occasione dei cinquant’anni dal suo suicidio. Nel gennaio del 1969, il giovane studente cecoslovacco, ispirandosi al clamoroso gesto compiuto sei anni prima dai monaci buddisti di Saigon, si diede fuoco per protestare contro l’intervento dei carri armati sovietici che il 21 agosto avevano brutalmente messo fine alla stagione liberalizzatrice passata alla storia come «primavera di Praga». In Ungheria, un altro leader sovranista, Viktor Orbán , ha fatto di peggio: dieci giorni fa ha ordinato la rimozione della statua di Imre Nagy, il capo del governo di Budapest che nell’ottobre del 1956 si oppose al doppio intervento militare russo nel suo Paese. Nagy, deposto dopo essere stato primo ministro per soli tredici giorni, ai primi di novembre di quello stesso ’56 si era rifugiato nell’ambasciata jugoslava, quindi era stato catturato dal Kgb su ordine del quale nel giugno del ’58, a seguito di un misterioso «processo», era stato condannato a morte. E subito impiccato. Sia Palach che Nagy furono per decenni oggetto di un’opera di denigrazione da parte delle autorità comuniste sovietiche, cecoslovacche e ungheresi. Nel caso di Palach, i servizi segreti russi fecero l’impossibile per comprometterne l’immagine.

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