Quel diversivo per distrarre dalla manovra
Appunto, come per Karl Marx l’establishment dell’epoca usava la religione come oppio per i popoli, Salvini oggi usa il tema dell’immigrazione in termini ideologici per distrarre l’opinione pubblica. Ogni imbarcazione che si avvicina alle nostre coste, abbia a bordo centinaia o decine di immigrati poco importa, diventa l’occasione per un braccio di ferro con l’Europa, i sindaci, le Ong, Macron, il Papa e catalizzare l’attenzione. Non è che il ministro dell’Interno leghista non abbia le sue ragioni. Anzi, tutt’altro. Solo che alla fine, come nelle vicende di Sea Watch e Sea Eye, lo scontro sul destino di quaranta disperati, secondo un’attenta regia mediatica, serve pure a distogliere lo sguardo sui mille problemi di questa maggioranza, a cominciare dalle conseguenze di una legge di bilancio che anche la maggior parte degli italiani giudica ridicola. In quest’occasione, poi, la maggioranza gialloverde ha superato se stessa, con Salvini che ha capeggiato il fronte della non accoglienza, senza «se» e senza «ma», mentre Di Maio ha spezzato una lancia in favore del fronte umanitario, riallacciando i legami con l’anima movimentista dei Fico e dei Di Battista in chiave anti-Lega. Così, i due vicepremier hanno occupato l’intero palcoscenico politico e, usando l’argomento come un’arma di distrazione di massa, hanno messo in secondo piano i limiti della politica economica del governo: Salvini ha abbassato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’evaporazione del tema della flat tax, l’aumento della pressione fiscale e le contraddizioni del reddito di cittadinanza per l’elettorato del Nord; mentre Di Maio ha nascosto, per quel che ha potuto, le capriole dei grillini sulle trivelle nel mar Ionio e la Tav (che seguono quelle su Ilva e Tap) e il ridimensionamento, sempre del reddito di cittadinanza.
Insomma, grazie all’«oppio» della questione immigrazione, Salvini e Di Maio hanno coperto con un velo i limiti delle loro politiche. In più hanno aperto la campagna elettorale per le europee, specie Salvini, usando un argomento che sull’opinione pubblica continua ad avere un forte impatto emotivo. Anzi, si può dire che il leader leghista sia condannato a farlo. Secondo uno studio della maga, Alessandra Ghisleri, infatti, del 32-33% che gli assegnano i sondaggi, solo il 22% è davvero conquistato alla causa leghista, il restante, invece, è condizionato dal dato emotivo del momento: oggi c’è, domani no. E Salvini per ancorare questo segmento di consenso attorno alla sua orbita, deve sempre speculare sul dato emozionale che temi come l’immigrazione o la sicurezza si portano dietro. Costi quel che costi: ieri, ad esempio, la Lega non ha presentato nessun emendamento che preveda un quorum per l’approvazione di un referendum propositivo, in cambio del via libera dei 5stelle sulla legittima difesa. Se non lo farà in altre fasi dell’esame del provvedimento, assisteremo al passaggio storico dalla democrazia rappresentativa a quella popolare per una norma di sicurezza. «Normalmente – osserva Ceccanti – gli alleati di una coalizione puntano a mitigare le proposte più estremiste dei partner di governo. Nella maggioranza gialloverde, invece, le assecondano. Siamo al matto più matto».
Ma una logica del genere può durare? E fino a quando? La realtà è che si tratta di uno schema estremamente fragile e pieno di contraddizioni. Basta pensare che per imporsi al Senato la politica del «no» all’accoglienza senza «se» e senza «ma» di Salvini, deve contare sui voti decisivi delle senatrici grilline Paola Nugnes e Elena Fattori, che sono «fan» di una posizione diametralmente opposta. Per cui il vicepremier leghista può superare le resistenze grilline solo affidandosi alla politica della paura (per le elezioni) o a quella dello «scambio», visto che non vuole perseguire la via maestra della costruzione di una maggioranza di governo più omogenea su argomenti, appunto come l’immigrazione e la sicurezza, che pure considera essenziali. Si tratta di un atteggiamento che a lungo andare logora: costringe, infatti, entrambi i partiti di maggioranza a cedere pezzi di identità e non è detto che funzioni sempre.
«Questi – osserva Gregorio Fontana di Forza Italia – finora si sono sempre salvati facendo la supercazzola, mettendo insieme tutto e il suo contrario. Ci sono, però, temi che incidono sul consenso, su cui è impossibile raggiungere un compromesso tra posizioni inconciliabili».
Ad esempio, chi ha detto che i 5stelle possano cedere sull’autonomia di regioni come il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna? Venerdì scorso, in un incontro «riservato», il governatore del Veneto, Luca Zaia, è stato estremamente chiaro. «Io – ha spiegato – non accetterò mai un’autonomia annacquata. Ci ho messo la faccia. Per cui se fanno scherzi, va in crisi il governo. Comunque, i grillini se la fanno sotto!». Parole in linea con quelle di Giancarlo Giorgetti, mente lucida della Lega di governo, che ha già messo in allarme i vari Garavaglia, Bitonci, Bedusi: «Attenti che è un argomento su cui possiamo saltare». Solo che «l’autonomia» di cui parla Zaia, non è una parola vuota, ma è densa di conseguenze che i 5stelle non possono ignorare: ad esempio, riporta risorse finanziarie alle regioni del Nord, dato non indifferente per i conti dello Stato. Ed è un tema su cui è complesso raggiungere mediazioni al ribasso, dato che investe la stessa costituency politica della vecchia Lega pre-salviniana. Lo hanno capito gli alleati storici di Forza Italia che sono pronti a promuovere una campagna per incalzare e contendere la bandiera dell’autonomia agli eredi del Senatur. Non per nulla venerdì prossimo il coordinatore del Veneto, Davide Bendinelli, ha organizzato a Verona la prima iniziativa con i due capigruppo parlamentari e i coordinatori di Lombardia ed Emilia-Romagna.
IL GIORNALE
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