Così Montanelli difese le vittime del killer rosso
Il 23 gennaio del ’79 ci fu, in una pizzeria di Milano in via Malpighi, un tentativo di rapina.
La vittima designata era un orefice, Pier Luigi Torregiani, che si trovava lì con la figlia e un amico. All’ingiunzione di consegnare il portafoglio, il Torregiani rispose con una mossa di karate che immobilizzò uno dei due banditi, ed estrasse la pistola. Ci fu una sparatoria al termine della quale si contarono due morti: un rapinatore e un avventore che si trovava lì per caso. L’episodio fu variamente commentato, ma quasi tutti i giornali biasimarono il Torregiani per la sua pretesa di farsi giustizia da solo, opponendo violenza a violenza, anche a costo di mettere a repentaglio la vita di alcune persone: qualcuno parlò addirittura di «fascismo» e «neosquadrismo». La riprovazione non si addolcì neanche quando si seppe che il Torregiani era affetto da un male incurabile e aveva adottato tre bambini rimasti orfani. La professione che esercitava lo qualificava senza scampo «capitalista». E questa etichetta, anche se non giustificava l’aggressione, ne attenuava la gravità riducendola a «esproprio proletario». Tre settimane dopo, il 16 febbraio mi pare, mentre rincasava con suo figlio Alberto, Torreggiani fu assalito alle spalle da quattro individui che stavolta non gli dettero il tempo di tentare una difesa. Riuscì ugualmente a sparare tre colpi, ma alla cieca. Cadde crivellato di colpi e spirò subito mentre anche Alberto veniva raggiunto da una pallottola alla spina dorsale che lo ha condannato alla carrozzella a vita.
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