Condannata a resistere
La prima sfida di Theresa May sarà sopravvivere alla mozione di sfiducia presentata da Jeremy Corbyn, leader dell’opposizione laburista, per mercoledì 16 gennaio. Non è una minaccia seria per la premier, che però ha detto che cercherà ora di creare consenso fra tutti gli schieramenti politici. Molti laburisti, e non solo, dicono che questo tentativo arriva più di due anni in ritardo. Corbyn ha accusato Theresa May di aver sin dall’inizio rifiutato un dialogo concreto con l’opposizione per privilegiare gli interessi del partito conservatore.
Brexit, e la ‘questione europa’ è sempre stato un conflitto interno del partito conservatore. Se i Tories fossero italiani, sarebbero almeno due o tre partiti di destra: i sostenitori sfegatati di una Brexit totale, i pragmatici stile May e chi invece ancora sogna di restare nell’Ue. Ma il sistema elettorale britannico non è una rappresentanza proporzionale. Qui vince chi arriva primo e non c’è premio di consolazione per i secondi classificati, nessun potere sproporzionato per i fratelli minori ma strategici di un governo di coalizione. Anche UKIP, con il suo 13% nel 2015, non ha mai avuto più di due parlamentari su 650.
Per questo i sostenitori di Theresa May dicono che tutta questa confusione non è colpa sua. Il paese è diviso. Il suo partito è diviso. Una hard Brexit danneggia il paese. Una soft Brexit non è la volontà espressa dal referendum. È facile bocciare la sua proposta, senza però presentare una reale alternativa.
Ma non tutti sono così clementi con i loro giudizi sulla premier.
Già da quando era ministro dell’Interno nel 2012, Theresa May aveva promesso di creare un “ambiente ostile” per gli immigrati illegali. Certo, gli immigrati europei in Uk non sono illegali ma quel tipo di linguaggio lascia il segno. La May ha sempre interpretato il voto Brexit come un rifiuto totale della libera circolazione. Ha detto che gli immigrati Ue non “salteranno più la fila davanti agli extracomunitari” e che i “cittadini del mondo non sono cittadini in nessun posto”. Queste frasi avranno rassicurato i brexiteers estremi ma hanno anche alienato potenziali alleati in parlamento che pur accettando il voto del referendum hanno trovato queste frasi divisive e superflue.
Intanto mancano solo 72 giorni dalla scadenza dell’Articolo 50, e il fatidico 29 marzo quando alle 23.00 ora britannica il Regno Unito uscirà dall’Ue. Ogni giorno cresce la preoccupazione, l’amarezza, la confusione, la divisione.
“Non permetteremo che scada il tempo.” Ha detto Theresa May in parlamento dopo la storica sconfitta, cercando di rassicurare il paese che farà di tutto per evitare una disastrosa uscita senza accordo. Ma tutte le altre opzioni, un secondo referendum, ulteriori negoziati con Bruxelles, un nuovo accordo da presentare in Parlamento, sono problematiche. E intanto lei rimane a Downing street, cercando di arrivare ad una soluzione per il bene del paese. Ma cosa sia esattamente, il ‘bene del paese’ non è chiaro e nessuno.
L’HUFFPOST
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