Cosa fanno le 1632 imprese italiane che crescono e assumono

Il software prima di tutto

Un socio forte, il fondo di private equity NB Renaissance (85% del capitale), è stata la scelta anche di Comelz (Vigevano), fondata dalla famiglia Zorzolo (15%). Produce da 75 anni macchine per il taglio delle pelli, con una attenzione storica all’innovazione tecnologica: è stata pioniera nell’introduzione degli impianti a controllo numerico negli anni Sessanta. Oggi è forse la prima del suo genere che si è comprata una software house, la toscana Develer. Negli ultimi otto anni ha registrato 19 brevetti, l’export vale il 75%, mentre il fatturato è lievitato dai 23 milioni del 2011 agli attuali 61.

Ampliare il raggio di azione

A Pesaro la Hsd produce motori «intelligenti» in grado di dare informazioni in tempo reale sulla sicurezza e sulla produttività. Nata nel gruppo Biesse e specializzata nel settore della lavorazione del legno, ha ampliato il raggio di azione a vetro e metallo. Per esempio la scocca di molti cellulari viene tagliata da una macchina con dentro un motore Hsd. Oggi è in grado di stare in piedi da sola ed esporta l’80% del prodotto, gran parte verso l’Asia. L’azienda — che tra il 2011 e il 2017 è passata da 46 a 88 milioni di fatturato, da 133 a 241 dipendenti — nel 2018 ha tenuto bene, ma ha sofferto le guerre commerciali tra Cina e Stati Uniti, e ha dovuto accantonare il progetto di quotazione in Piazza Affari.

I parametri per scovare i migliori

Quali sono stati i criteri utilizzati per individuare i migliori? Stefania Trenti, che ha curato il monitoraggio per Intesa Sanpaolo spiega: «Oltre ai leader storici del Made in Italy, c’è un gruppo di potenziali trascinatori che emerge dai distretti, le regioni produttive del Paese dove si afferma la specializzazione di un certo tipo di attività, e una connessione virtuosa tra le aziende che fanno rete sul territorio». Lo studio ha preso in considerazione le aziende con un fatturato di almeno 400 mila euro e le ha osservate nel tempo. Gli ultras della crescita rappresentano il 9% delle società «distrettuali». Nel periodo considerato hanno avuto un aumento del fatturato superiore al 15% e hanno assunto personale. Il margine lordo è migliorato almeno del 5-8%. Significativo anche il «certificato di buona salute», cioè il rapporto tra patrimonio netto e passività, superiore al 10%. Pochi i debiti e se ci sono vengono compensati da attivi robusti. Gli altri criteri di scelta sono qualitativi, a partire dai brevetti: 103 ogni 100 imprese, mentre in media 100 aziende non eccellenti ne hanno appena 38. Il 53% dei campioni vende all’estero contro il 33% della media nazionale. In sostanza chi ha avuto il coraggio di ammodernarsi è stato premiato dai risultati.

I distretti-traino

Il distretto con più eccellenze è quello dei metalli di Brescia che ne conta 123, seguito dalla metalmeccanica di Lecco (94) e dalle materie plastiche tra Treviso, Vicenza e Padova (81). Il Sud spicca con un solo distretto: quello barese della meccatronica. I «campioni» negli ultimi mesi hanno lavorato con risultati buoni in un quadro dove le performance medie del Paese e dell’Europa sono state meno brillanti, sia sul fronte della produzione industriale che dell’export. Il settore manifatturiero infatti è cresciuto nel 2018 dell’1,7%, contro uno 0,9% del Pil italiano. L’Economia del Corriere della Sera insieme a Italypost presenterà nei prossimi mesi una nuova classifica di 500 campioni di crescita dal 2010 con un fatturato compreso tra 20 e 120 milioni di euro, allargando poi anche ai top 100 di taglia superiore (120-500 milioni). Due analisi con parametri diversi, che portano a conclusioni simili.

Il confronto con la Germania

L’Italia che ce la fa è in grado persino di battere la Germania se si confrontano la propensione all’export e la vocazione manifatturiera dei distretti di Vicenza o Reggio Emilia con quella del Baden-Wurttenberg, uno dei lander più ricchi.

La varietà del Made in Italy venduto nel mondo è impressionante, il nostro indice di diversificazione dei prodotti esportati è pari a 279,4, quasi 150 punti più della Cina. Eppure il confronto della produttività nazionale dal 1995 ad oggi con quello tedesco è impietoso: il nostro Pil per ora lavorata è cresciuto solo dello 0,4% medio annuo, quello tedesco ha marciato dell’1,6%. In altre parole: le nostre aziende migliori non hanno rivali, le altre arrancano.

Il fisco, la burocrazia, le regole

Le ragioni per cui le imprese non crescono sono sempre le stesse da decenni: burocrazia perversa, troppe tasse, pochi incentivi per gli investimenti, in un contesto generale che non agevola le acquisizioni e la raccolta di risorse finanziarie. Infatti l’Italia è solo al 51esimo posto della classifica 2019 Ease of Doing Business della World Bank, un termometro che misura la facilità di svolgere attività economica in 189 Paesi. Nell’ultima manovra c’è attenzione alle piccole imprese con la flat tax, la mini-ires al 15% per chi accantona/investe/assume, oltre all’iperammortamento per chi fa investimenti tecnologici inferiori a 2,5 milioni. Si è scelto invece di cancellare l’Ace, l’incentivo fiscale che premiava il reinvestimento degli utili in azienda, spingendole ad «irrobustire» il patrimonio. Ce ne sarebbe stato ancora bisogno, visto che per il 2019 si prevede un Pil in ulteriore calo e si parla di recessione tecnica. Anche le «eccellenze», che in questi anni sono riuscite a creare occupazione, potrebbero trovarsi in difficoltà.

CORRIERE.IT

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