Università: senza soldi né prof costretta al numero chiuso
di Milena Gabanelli e Orsola Riva
In Italia abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa. Per recuperare terreno dovremmo rincorrere gli studenti e incentivarli a prendersi un titolo di studio, invece mettiamo ostacoli. Partiamo dal più vistoso: il numero chiuso nei corsi di laurea. A cosa serve? La risposta è scritta nella legge 264 del 1999 (governo D’Alema): troppi corsi diventati parcheggi per fuoricorso o fabbriche di disoccupati, troppe aule sovraffollate. Da quel momento si stabilirono due tipi di sbarramento: a livello nazionale per medici e dentisti, infermieri e fisioterapisti, veterinari, architetti e maestre. A livello locale invece si lasciava ai singoli atenei la facoltà di disporre del numero chiuso per i corsi che prevedevano l’uso di laboratori o l’obbligo di tirocini. Un modo per garantire a ogni studente una formazione di alto livello e sfornare «dottori» in numero corrispondente al fabbisogno nazionale e alle richieste del mercato.
Facoltà di Medicina
Com’è andata a finire vent’anni dopo? Che a Medicina ogni anno un esercito di aspiranti camici bianchi (quest’anno erano 67 mila per 10 mila posti) va a sbattere contro il test: 100 minuti per rispondere a 60 domande che con le cose studiate a scuola c’entrano poco. I più si preparano spaccandosi la testa sui quiz degli anni precedenti pagando migliaia di euro «allenatori» privati. Chi passa, una volta portata a casa la laurea, deve affrontare un altro collo di bottiglia, quello delle scuole di specializzazione. Qui i posti sono legati al numero di borse di studio disponibili: sistematicamente meno di quelli che servirebbero. Una strozzatura che rischia nei prossimi dieci anni di lasciare milioni di famiglie senza medico di base, mentre ne mancano all’appello ogni anno 700 fra chirurghi, pediatri, anestesisti, ginecologi e medici di pronto soccorso.
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