Su migranti e seggio Onu seconda guerra all’Europa
Per dirla con una frase resa celebre da Napoleone e De Gaulle, per restare in tema, l’«intendenza», magari con qualche timore, segue i generali che invece vanno avanti come treni. Ieri il vicepremier Giggino Di Maio distribuiva a Montecitorio fac-simili del franco Cfa, simbolo per i 5stelle del neo-colonialismo di Parigi, mentre al Viminale, di fronte al paventato abbandono della Germania della «missione Sophia» nel Mediterraneo, Matteo Salvini rilanciava: «L’Italia pronta a fare lo stesso». Una posizione dura, spiegata da uno degli intimi del vicepremier, Igor Iezzi, davanti alla buvette della Camera: «La Germania ci ha fatto un piacere, magari da Sophia usciamo anche noi. Tanto serve solo a portare i migranti in Italia. Se siamo isolati? Per nulla. Bolsonaro ci ha appena estradato Battisti». Peccato, però, che il Brasile non è nel Mediterraneo e che nelle stesse ore il profeta dei grillini, Beppe Grillo, giudicava «preoccupante» l’elezione del presidente sudamericano proprio mentre il premier Conte lo incontrava a Davos.
Sono gli imprevisti e le contraddizioni della politica estera dell’Italietta gialloverde, sempre pronta ad andare in guerra, a trovarsi un nemico per dimenticare i propri guai. E, purtroppo, le lezioni non bastano mai. Neppure qualche mese fa Di Maio e Salvini avevano incrociato le armi con la Ue sulla legge di Bilancio: polemiche e minacce che si sono concluse con un armistizio in cui il governo ha accettato un rapporto deficit/Pil al 2,04 %, poco distante dalle richieste di Bruxelles e molto dalle intenzioni annunciate per mesi ai quattro venti da Roma. «Tanto piovve è stato il commento sarcastico dell’azzurra Michaela Biancofiore rispetto all’esito della prima guerra proprio mentre comincia la seconda che alla fine ci siamo beccati una manovra scritta dalla Francia». Uno scontro che ci è costato non poco, visto che alla fine di settembre le ripercussioni di quella strategia sullo spread, dati di Bankitalia per difetto, hanno determinato un aumento degli interessi sul debito del nostro Paese in tre anni di 20 miliardi di euro: una volta e mezzo il costo in un anno del reddito di cittadinanza e di quota 100.
Ora il governo gialloverde ci riprova. Sull’immigrazione e non solo. Per essere chiari il problema non è quello di andare ad un braccio di ferro con l’Europa, che nei nostri confronti è piena di mancanze, o allo scontro con la Francia, che ne ha fatte di cotte e di crude, a cominciare dalla guerra contro Gheddafi che ha generato i guai di oggi sull’immigrazione. Il punto è che l’Italietta gialloverde va alla guerra senza avere una strategia, un sistema di alleanze e sottovalutando gli avversari. Tutto questo genera una confusione di fondo: «Tra Salvini, Di Maio, Conte, Moavero, Tria e via dicendo ironizza il forzista Giorgio Mulè ho contato sei politiche estere diverse». Una condizione che determina i distinguo e le prese di distanza dei personaggi più avvezzi alla «realpolitik» del palcoscenico internazionale. «Preferisco parlare di economia si schermisce il ministro per i Rapporti con la Ue, Paolo Savona visto che in politica estera il governo è poliedrico».
Appunto, un dilettantismo di fondo che i nostri eroi esorcizzano millantando sai quali benefici elettorali, senza porsi il problema delle conseguenze negative per il nostro Paese. Conte a Davos ha lanciato la campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo («gli italiani sono stati pazienti per molti anni»), ma dovrebbe anche farsi due conti: si va allo scontro frontale con la Francia, dimenticando che è il primo investitore internazionale sul nostro debito (banche e assicurazioni d’Oltralpe hanno in pancia circa 250 miliardi di euro in titoli di Stato italiani); il secondo investitore, ma con molto meno, è la Germania. E queste cose contano: ne sa qualcosa il Cav, che nella sua benemerita battaglia contro l’austerity nel 2011 in seno alla Ue, ne fece le spese, sebbene, a differenza dei gialloverdi che sono soli, si trovasse d’accordo con Obama e godesse dell’appoggio del premier spagnolo Zapatero. Oggi come allora, il primo risultato dell’azzardo italiano è che Parigi e Berlino hanno stretto un «patto d’acciaio» in chiave anti sovranista. Inoltre queste guerre, ne è conscio il ministro Savona, mai silenzioso come ora, hanno conseguenze sugli affari: ad esempio, a questo punto Air France entrerà nel consorzio che dovrebbe salvare Alitalia guidato dalle Ferrovie dello Stato? Ed ancora, in queste condizioni Fincantieri riuscirà a condurre in porto le acquisizioni Oltralpe?
Domande che restano senza risposta. Stesso discorso vale sulla politica dell’immigrazione. Si rompe con Francia e Germania, ma quali sono i nuovi alleati, visto che gli altri Paesi dell’«internazionale sovranista» di accoglienza non ne vogliono sapere? Anche perché se l’ungherese Orban è fiero di respingere gli immigrati alle frontiere, l’Italia non può permettersi di respingerli in fondo al mare. È la condizione «geopolitica» che obbliga il nostro Paese a coltivare una politica di solidarietà e di alleanze: non solo in Europa. I drammi di queste settimane, uno può dire ciò che vuole, sono stati determinati dal venir meno degli impegni presi dal nostro governo verso i vari capi che fanno la voce grossa in Libia. Del resto non è una novità, anche il turco Erdogan usa «il rubinetto» dei profughi per condizionare l’Europa. Tutto questo dimostra che certi problemi non possono essere affrontati solo con l’accetta. Ieri Salvini ha annunciato che per la prima volta il numero dei rimpatri è superiore agli arrivi, dimenticando però che i morti pure sono raddoppiati. «Se litighi con tutti – commenta l’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti a cominciare dalla Tunisia, che non li accetta, e non puoi mandarli in Libia, come risolvi il problema monster dei rimpatri, che non riguarda decine o centinaia di persone, ma migliaia e migliaia?». E si torna al dilemma iniziale: le guerre si fanno solo per vincerle e non le vinci se non hai un’accorta strategia e generali capaci.
IL GIORNALE
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