L’addio (forzato) a Parmalat e quella lezione al Paese

Nicola Porro

La storia di Parmalat, la prima azienda agroalimentare italiana che impiega ancora mille collaboratori, dovrebbe svegliarci.

Come ben sapete, otto anni fa fu sfilata a Enrico Bondi, grazie ad un assegnuccio da 4 miliardi. A beccarsi la preda, fu un gruppo familiare francese. Oggi la famiglia Besnier, come ha scritto il Sole24 Ore un paio di giorni fa, ha intenzione di concludere l’opera: azzerare il quartier generale di Collecchio, patria di Tanzi, e spostare tutto a Laval, il villaggio francese da cui provengono. Trecento chilometri da Parigi e neanche 50mila anime. I Besnier non pubblicano bilanci, si fanno, raramente, vedere alla partita della loro squadra di serie B, non circolano molte foto che li ritraggono, sono ricchissimi e si portano tra pochi giorni tutto a casa. Parmalat non solo non sarà più quotata, pazienza, ma non esisterà più come entità giuridica: fusa in Lactalis. Che nel frattempo ha piazzato i suoi manager (tutti francesi) alla guida delle nove divisioni operative in cui verrà organizzato l’intero gruppo. Insomma, dopo otto anni, Parmalat anche formalmente non esisterà più. Fino ad ora i francesi hanno licenziato praticamente nessuno e probabilmente con la prossima riorganizzazione usciranno non più di un centinaio di persone (comunque il dieci per cento della forza lavoro italiana). Uno stile molto diverso da quanto hanno adottato le multinazionali, sempre francesi, della moda: hanno comprato una caterva di marchi italiani, senza spostare una virgola della loro italianità. Anzi sfruttandola al massimo sia nella produzione sia nello stile per affermarne il prestigio e il successo internazionale (anche se bisognerà accertare bene se non hanno fatto i furbetti con il fisco). Atteggiamenti padronali diversi, per settori che forse non sono comparabili: sulla moda ci sono margini cicciotti, sull’alimentare striminziti. Ma tant’è.

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