L’addio (forzato) a Parmalat e quella lezione al Paese

Ebbene ritorniamo al punto di partenza e cerchiamo di capire perché dovremmo svegliarci e ragionare, senza piagnistei, sul latte, è il caso di dirlo, versato. La Parmalat, ovviamente, non è stata sempre francese. E non intendo all’epoca di Tanzi e dei suoi trucchi contabili. Fino alla primavera del 2011, quando comparvero i Besnier, era lì quotata in Borsa, con 1,5 miliardi di cassa, derivante dalle cause di risarcimento intentate da Enrico Bondi, senza un azionista di riferimento che comandasse. Era una bella preda che nessuno dei nostri imprenditori voleva conquistare. Pensavano di tenerla là in caldo, chissà per chi e per cosa. La famiglia francese ci ha riflettuto molto e compiendo l’acquisizione più importante della sua storia, ha portato a casa il bottino e lo gestisce, legittimamente, come crede. Parmalat d’altronde è un’impresa che vende beni di largo consumo: difficile anche per il più incallito protezionista della nostra epoca pensare ad una diga per «fermare lo straniero». E soprattutto in mancanza totale di imprenditori italiani interessati. Oggi piangiamo, ieri ballavamo intorno alla preda.

Ecco, in giro di questi tempi ci sono un bel po’ di Parmalat. Per carità nessuno dice che si debba piegare il mercato: alle volontà di chi, poi? Basta essere intellettualmente onesti e sapere che là fuori ci sono un bel po’ di cartelli vendesi: Carige, una banca che nonostante tutto ha ancora un buon grado di fidelizzazione; Astaldi che ha un buon portafoglio ordini, una grande storia, ma una sofferenza finanziaria pazzesca; Ferrarini, un marchio premium, che però i legittimi proprietari non vogliono spezzettare; Tim che dalla scalata di Colaninno in poi è in balia più della sua governance che del traffico che genera. Ci auguriamo solo che non finiscano tutte come Parmalat.

IL GIORNALE

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