Gino Strada: «Gli inizi di Emergency? La svolta fu il Costanzo Show»
È vero che litigò con la Croce rossa?
«Quella
italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima.
Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto
s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile,
costosa, rischiosa».
E il nome?
«Lo
scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for
Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo».
Settantanove progetti in sette Paesi, 120 dipendenti, 9 milioni di persone curate. Questa nuova sede vicino a Sant’Eustorgio…
«È
la chiesa piu antica di Milano, sa che non ho ancora avuto il tempo di
visitarla? Nessuno pensava a dimensioni simili. Anni lunghi, faticosi.
Siamo cresciuti con la solidarietà della gente. Anche ora che le Ong
sono criminalizzate. Quel procuratore di Catania, Zuccaro, ci ha provato
e non è uscito niente. Quando ammetterà che era tutta una balla?».
Volevano la tassa sulla bontà per colpire chi s’arricchisce…
«Anche
noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150mila
euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a
comportamenti illegali. Ma non cambi la tassazione delle Ong solo perché
tre sono poco chiare: indaghi su quelle tre!».
Vi sentite danneggiati?
«Han
creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma
i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i
ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo
noi».
Un caso che non dimentica?
«Un
ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una
mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato».
Il giorno più duro?
«Quando
rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso
Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era
un uomo che rischiava più di me».
Ha lavorato con Christiaan Barnard…
«Elegantissimo,
con la sua Mercedes, ma ormai operava poco per l’artrosi alle mani. I
miei modelli furono Staudacher e Parenzan».
E la chirurgia di guerra chi gliela insegnò?
«Era
un’attività di nicchia. La faceva la Croce rossa. E i militari, che
però erano proprio un altro mondo. Nel ’91, guerra del Golfo, i militari
chiesero a Ginevra d’andare in Bahrein. Avevano allestito un ospedale
da 5mila posti letto. Vuoto. Mandammo 101 chirurghi inglesi. Ma fecero
un solo intervento: a un mignolo».
Il mondo umanitario a volte è pura rivalità. In Sierra Leone, i medici olandesi e francesi di Msf nemmeno si parlavano…
«C’è
anche molto dilettantismo, favorito dai grandi donatori. In Kurdistan,
vidi un palazzo per la posta aerea pagato dall’Ue. Gli aeroplanini
dipinti, la scritta Air Mail. Inutile, costava un’enormità. Lo usavano
come hotel».
Libia, Palestina… Perché state alla larga?
«I
libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra,
solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci
ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma
voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila
dollari”. Arrivederci… Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla
Palestina finisca altrove».
Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan.
E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia
in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile,
con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era
davvero bisogno in Sudan… Perché? Gli africani non hanno bisogno
d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli
europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai?
L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».
Trattate col dittatore Bashir…
«Se
un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che
noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come
dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?».
Quando pecunia olet?
«Quando arriva dal crimine. E chi dona, pretende di decidere chi devi operare e chi no».
Le amicizie d’una vita?
«De
André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi
scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo.
Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non
sapevo nemmeno che faccia avesse».
Dio?
«Non ne
sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle
cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso
l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche
bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa
Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema,
oggi è dimenticato».
Dicono che lei sia un pacifista utopista…
«Utopista
va bene: secoli fa, era utopia abolire la schiavitù. Pacifista, no: lo
sono anche i parlamentari che poi votano per le guerre».
Sergio Romano scrisse: Emergency fa del bene, ma non è neutrale.
«Nessuno
può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a
esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita,
la giustizia, l’uguaglianza».
Aveva simpatie per Ingroia, per Tsipras…
«Quelle
sono cose che ti appiccicano addosso. Certo, trovo Prodi una persona
ragionevole, anche se polemizzammo sull’Afghanistan (credo che oggi
saremmo più in sintonia). E trovo Salvini razzista. Io poi sono di Sesto
San Giovanni e ieri ho firmato una petizione perché apre Casa Pound.
Quest’idea imbecille d’una società violenta e rancorosa, che ti spinge a
trovare chi sta peggio di te e a dargli la colpa dei tuoi guai. Mai uno
di loro che punti il dito su quelli che stanno meglio, eh?».
In Italia, avete 13 progetti.
«Un’Italia
sconosciuta. Castel Volturno, Polistena, questi bei posticini. Povertà,
degrado, schiavismo, situazioni che non ho mai visto neanche in Sudan.
Quando abbiamo aperto a Marghera, pensavamo d’essere nel ricco Nord Est e
d’avere solo stranieri. Invece il primo paziente fu uno di Mestre, un
bell’uomo. Era stato un campione italiano alle Olimpiadi. Ma poi aveva
perso il lavoro e i denti, mangiava male. E non poteva pagarsi una
protesi».
Se i grillini
l’avessero candidata al Quirinale, come volevano, sarebbe diventato il
capo delle Forze armate. Che cosa avrebbe fatto?
«Ritiro dalle missioni all’estero. Smantellamento degli arsenali stranieri in Italia. Riduzione degli armamenti. Ma era una boutade, non ci ho pensato neanche un momento».
L’hanno candidata al Nobel per la pace…
«Accade
ogni anno. Ci sono delle regole, il candidato non sa mai chi lo
candida. Accettarlo? Mah, l’hanno talmente svilito: Obama l’ebbe per un
semplice discorso, Kissinger con tutti i golpe che ha organizzato, l’Ue
che tira su muri e nei Balcani fece una guerra tra le più sanguinose del
secolo…».
Sua figlia Cecilia tornerà in Emergency?
«Non lo so. Non discutiamo più delle vicende che l’hanno spinta ad andarsene. Ma abbiamo ancora un buon rapporto».
Che padre è stato?
Cecilia raccontò una volta che all’asilo le mandava le cartoline dal
mondo, da adolescente lei le vietava la discoteca, da adulta ha imparato
la sua ironia…
«L’ironia e la discoteca, è vero. Ma non le
mandavo solo cartoline dal mondo. C’inventavamo giochi, letture.
All’asilo, sono andato anche a fare il buffone».
Si sente stanco?
«Purtroppo
ho 70 anni e sono afflitto da una malattia inguaribile, la vecchiaia.
Non so come faccia Renzo Piano, 12 ore d’aereo e subito altre otto in
cantiere. Forse la vita del chirurgo è molto usurante e ha ragione Woody
Allen: non conta l’età, conta il chilometraggio. In alcuni posti ho
lasciato la salute. L’anno in Sierra Leone è stato devastante, perché
ebola non è diverso dalla guerra: il nemico non lo vedi, ma ogni passo
che fai potrebbe essere l’ultimo».
Hanno dato il suo nome a un asteroide, il 248908 Gino Strada…
«Una volta ho fatto i conti sulla superficie: potrebbe venirci fuori un bilocale. Un buon rifugio per il weekend. Però è a otto milioni di anni luce, un po’ lunga: ho ancora troppo da fare, qui».
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