Politica, giustizia e ipocrisie
La «democrazia giudiziaria» è diversa, è un’altra varietà di regime ibrido (democrazia più autoritarismo). Per molti versi, è l’opposto della democrazia illiberale. Qui il governo è solo formalmente al posto di comando. Nei fatti, la discrezionalità politica di cui esso gode è quasi nulla. Non c’è decisione politica possibile se essa non ottiene il placet, quanto meno tacito, delle magistrature. Se il panpoliticismo impazza nella democrazia illiberale è il pangiuridicismo a celebrare i propri trionfi nella democrazia giudiziaria. Concretamente, se nella democrazia illiberale è un delitto di lesa maestà contrapporsi al governo, nella democrazia giudiziaria lo è contestare le decisioni dei magistrati.
Dal punto di vista che qui ci interessa la differenza riguarda l’ampiezza della discrezionalità che i due regimi lasciano alla decisione politica (dilatatissima, priva di limiti giuridici, nella democrazia illiberale; nulla o quasi nulla nella democrazia giudiziaria). Nella democrazia illiberale il governo può impunemente commettere qualunque crimine. In una democrazia giudiziaria, per contro, gli ideologi del pangiuridicismo, negando l’autonomia della politica, non hanno da eccepire se un procuratore incrimina per strage o per tentata strage il capo del governo del proprio Paese il quale abbia ordinato azioni militari contro uno Stato nemico.
Da quanto detto sopra è facile dedurre che in medio stat virtus: le democrazie liberali seguono (finché non cessano di essere tali) una strada intermedia che consenta loro di evitare sia il panpoliticismo delle democrazie illiberali che il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie. In concreto, una democrazia liberale resta tale fin quando funzionano i limiti che si sono auto-imposti tanto le classi politiche che le magistrature. Le prime non attentano all’indipendenza delle magistrature (dei giudici), le seconde rispettano la discrezionalità dell’azione politica, riconoscono l’esistenza di «domini riservati», di ambiti di decisione ove solo le scelte del potere rappresentativo devono avere l’ultima parola. Racconteremmo una favoletta moralistica se dicessimo che questa auto-autolimitazione sia solo il portato delle «virtù» civili di cui (qualche volta) sono dotati politici e magistrati. Ma no: se quei limiti ci sono e funzionano (quando funzionano) è solo perché le tradizioni costringono tutti ad accettarli. Quei limiti funzionano se la «guardiana dei luoghi comuni» (alimentati dalle tradizioni del Paese), ossia l’opinione pubblica, impone ai due gruppi suddetti di rispettarli.
Democrazia illiberale e democrazia giudiziaria sono casi estremi. Le varie democrazie esistenti possono di volta in volta avvicinarsi all’uno o all’altro. È almeno dai tempi di Mani Pulite che l’Italia bordeggia intorno alle coste della democrazia giudiziaria. Non è riuscita ancora ad attraccare ma ci prova di continuo. Spingono in quella direzione tante cose. Spinge il richiamo dell’antico detto «Piove governo ladro». Ora la chiamano «anti-politica» ma è sempre l’idea che i politici siano tutti, per definizione, ladri e corrotti, gente da mandare in galera a prescindere. Gioca, per conseguenza, la potenza politico-organizzativa accumulata da una corporazione, quella dei magistrati, che è l’unico «potere forte» ancora esistente nel Paese. Domina su tutto una tradizione nazionale più forcaiola che liberale, per la quale vige la presunzione di colpevolezza, i procuratori vengono confusi con i giudici (e, per conseguenza, gli avvisi di garanzia sono equiparati alle sentenze) e c’è sempre qualcuno pronto a protestare indignato se viene assolto qualche imputato eccellente mentre non se ne trova uno a pagarlo che protesti di fronte a una condanna.
C’è qualcosa di paradossale nelle azioni giudiziarie in corso contro il ministro dell’Interno e la sua politica in materia di immigrazione. Da un lato, si tratta di una tipica intrusione (da democrazia giudiziaria, appunto) tesa a negare la discrezionalità della politica in un ambito in cui quella discrezionalità non dovrebbe essere in discussione: nulla, infatti, è più politico, nulla è più di pertinenza della politica, nella sua autonomia, del diritto di chi governa in forza di un mandato popolare a decidere sui confini, su dove stabilirli, e su chi fare entrare e chi no nel territorio di propria competenza. In questa vicenda è la questione dei confini e di chi li controlla ad essere in discussione.
Dall’altro lato, però, è bizzarro che ad essere colpito sia il ministro dell’Interno, espressione di un movimento politico che, al pari dei suoi amici e sodali dei 5 Stelle, non ha mai brillato in passato per avere difeso autonomia e discrezionalità della politica quando sotto attacco giudiziario erano altri. È un aspetto poco commendevole della nostra tradizione. Si difende la discrezionalità della politica o ci si dimentica di farlo a seconda delle convenienze. Più in generale, vige il principio: le garanzie liberali per noi, la galera o, almeno, il linciaggio morale, per tutti loro.
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